Pasenow o il romanticismo secondo Broch

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Adelphi pubblica in una nuova traduzione il primo capitolo della trilogia dei Sonnambuli

di Fulvio Senardi

 

«Ah quali esseri privilegiati sono i tenenti, i proprietari di fondi immobiliari alti sei piedi, e tutti gli altri della famiglia di Don Giovanni», scriveva Theodor Fontane, il grande romanziere tedesco del secondo Ottocento, in una lettera degli anni del declino (citata da Thomas Mann in Nobiltà dello spirito). Il senso della riflessione è quello di esaltare chi partecipa della vita vera in contrapposizione al destino di letterato solitario cui egli si sentiva condannato. Siamo nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, ed è appunto nell’anno 1888 che Broch ambienta il primo volume del suo ciclo dei Sonnambuli che Adelphi manda in libreria nella nuova traduzione, agile e raffinata, di Ada Vigliani, (I.1888Pasenow o il romanticismo). Ne è protagonista un capitano, scarsamente donnaiolo ma solidamente radicato nella società del privilegio perché appartiene a una famiglia di proprietari terrieri di cui, dopo la morte del fratello, è l’ultimo rampollo.

Il raccordo con Fontane risulta evidente, per lo meno al lettore tedesco, e rimanda al romanzo Der Stechlin, pubblicato nel 1899 (si può leggere in italiano con il titolo Il signore di Stechlin): una medesima ambientazione geografica e sociale (la Prussia orientale e il ceto degli Junker) e una stessa asciuttezza d’intreccio (un padre che invecchia nella proprietà avita, un figlio ufficiale, una fanciulla silenziosa e sognatrice che vagheggia un’identificazione con Elisabetta d’Ungheria, infine un matrimonio), mentre la volontà di uno sguardo largo sui fenomeni del proprio tempo, giudicati da Fontane con bonario e mai miope conservatorismo, lascia invece il posto ad una sonda introspettiva concentrata e notomizzante, attratta dal vagare allucinato di pensieri senza centro, dalle inquietudini di soggettività senza mai pace, dalle fantasie e dalle ombre di un confuso pre-conscio. Ma quel 1888 è altrimenti significativo: è l’anno dell’ascesa di Guglielmo II al trono di Germania e, come ha fatto notare Luca Crescenzi, l’ultimo della vita cosciente di Nietzsche, il grande diagnostico della crisi di valori di cui Broch esplora le sfaccettature.

Questo fitto reticolo allusivo potrebbe farci pensare che sul libro gravi una cappa di pesante erudizione, ma non è così. Non per questo il Pasenow si presenta come una sfida facile per lettori ormai avvezzi all’ingorgata fattualità e all’elementare paratassi del romanzo giallo: qui si tratta di assaporare e di riflettere, impegno non sempre agevole perché Broch non ci fornisce, se non per spunti ed allusioni, quei riferimenti intellettuali che consentirebbero un attraversamento consapevole. Lo stesso concetto di “romanticismo” viene proposto in un’accezione del tutto personale: “poiché elevare all’assoluto ciò che è terreno denota sempre romanticismo, il rigoroso e autentico romanticismo della nostra epoca è quello dell’uniforme [e] l’uomo che porta l’uniforme è appagato dalla consapevolezza di rispondere all’autentica forma di vita del suo tempo e quindi anche alla sicurezza della propria vita” (26-27). In altre parole, romantico è chi innalza alla sfera del sacro – che dovrebbe avvolgere e armonizzare l’intera società come in quel Medioevo di cui Broch si fa, idealizzandolo, un proprio mito – ciò che è invece terreno, banale, prosaico, effimero. Da qui la scelta di individuare un ufficiale come protagonista, in quella Germania guglielmina che ha segnato l’apoteosi del militarismo europeo. Ed è, in fondo, un’opzione curiosa se pensiamo che Broch, nato a Vienna nel 1886, avrebbe potuto trovare come tanti compatrioti (Kraus, Musil, Roth) uno splendido simbolo di quel “tramonto della civiltà occidentale” che è il suo tema fondamentale nella catastrofica finis Austriae. Peraltro, spostare a nord il baricentro narrativo, dimostra una chiaroveggenza non da poco: il tragico tentativo di fermare il corso della storia con una rivoluzione conservatrice tesa a riaffermare, sull’orizzonte del mito della razza, valori tradizionali e gerarchie confermate nella guerra col sangue della stirpe, troverà in effetti nella Germania presto hitleriana il suo lugubre protagonista. E vi sono in effetti disseminati nel romanzo i segnali di una sensibilità destinata a sfociare nel nazismo, a partire dell’idea spengleriana del tramonto dell’occidente, prossimo a perire sotto la minaccia dei barbari di fuori, le razze non-europee (di cui è emblema nel romanzo la boema Ruzena, sorta da “un mondo selvaggio, acquattato nell’ombra, barbaro” [23], e sono toni quasi da Cuore di tenebra, che i tedeschi hanno potuto leggere nella propria lingua dal 1926), e dei barbari di dentro (le masse ribelli del proletariato: “operai fermi davanti al cancello della fabbrica, simili a un esotico popolo rugginoso, non molto diverso da quello boemo”, [79]).

Ecco il senso della divisa, sigillo della fedeltà alla tradizione, una sorta di “saio” laico che “riconduce nel mondo della convenzione e nell’ordine”. Un argine interiore (e anche politico: ma è un orizzonte che Pasenow non scorge, “sonnambulo” com’è, a differenza del suo chiaroveggente autore) contro ogni sovversismo e diversità, anche quella “borghese”, offrendo la garanzia di consuetudini antiche e antidoti contro le più insidiose tentazioni edonistiche: “i pericoli della vita borghese erano di un genere sconosciuto, oscuro e inafferrabile. Lì tutto era in disordine, senza gerarchia, senza disciplina e probabilmente senza nemmeno puntualità” (79). Ottima intuizione si diceva: quando Broch comincia a mettere mano, nel 1928, alla trilogia dei Sonnambuli, di cui Pasenow è il primo capitolo, il partito di Hitler, lo NSDAP sfiora, restando al disotto, la soglia del tre per cento alle elezioni di maggio; un anno dopo la pubblicazione del ciclo, nel 1932, è il primo partito del Reichstag, al 37 per cento. È dunque lì il cuore del male oscuro e l’origine della falsa terapia con cui si spera di ridare salute alla civiltà europea, e assolutamente appropriata la scelta di Broch, ancorché in un romanzo apparentemente “unpolitisch”, di guardare al microscopio il diffondersi del tumore. Ben al di qua di ogni ambizione palingenetica, di ogni lucida visione del futuro, perfino di ogni certezza identitaria, il protagonista, Joachim Pasenow, trascina la personalità franante e il suo costante e indecifrabile “disadattamento” nelle vie di Berlino e nella tenuta della famiglia, dov’è testimone del declino fisico e psichico del padre, consuma una relazione con Ruzena una ragazza facile, “escort” diremmo oggi, incontrata in un locale e si decide infine per un matrimonio molto assennato (lo stesso ceto, gli stessi agi ed abitudini, e una proprietà confinante con la propria) con Elisabeth (evidente il rimando tanto a Fontane quanto al Tannhäuser di Wagner, che pure Broch giudicava assai vicino al Kitsch, e di cui, parrebbe senza finalità ironiche, si echeggia il conflitto tra il fascino seduttivo di Venere e la casta devozione della purissima Elisabeth).

Deuteragonista è l’amico von Bertrand, verso il quale Joachim cova un sordo risentimento senza riuscire tuttavia a distaccarsene. Figura dell’uomo d’affari, viaggiatore cosmopolita sordo ai valori della tradizione, egli intreccia un idillio con Elisabeth (la sezione più debole del romanzo) per poi lasciare il campo, per fastidio verso ogni legame stabile, a Joachim; una figura che deve forse qualcosa, per il suo individualismo apolide, per la predace “modernità” capitalistica di cui è portavoce, alla tradizionale immagine dell’ebreo elaborata negli ambienti conservatori, un tema cui Hermann Broch, che nasce in una famiglia israelitica, dovette essere piuttosto sensibile.

Scarno dunque l’intreccio, ma visionaria, metaforica e immaginifica la scrittura e capace di suggerire, grazie alle studiate risonanze, ciò su cui nulla dice l’esplicito del testo; uno stile ben amalgamato, ma collettore e crogiolo delle impronte più varie, anche di D’Annunzio, come gli appassionati del Pescarese subito noteranno, a testimonianza della fortuna dello scrittore italiano nei Paesi di lingua tedesca (e basterà pensare, per un esempio non banale, a come spesso lo citi Marcuse nella sua tesi di laurea del 1922, Il romanzo dell’artista nella letteratura tedesca). Qui il discorso potrebbe prolungarsi, togliendo al lettore il piacere di proprie scoperte; ma, a dimostrazione di quanto abili e densi di significato siano i chiaroscuri di Broch, si confrontino la notte d’amore con Ruzena (51) – un episodio che, disvela a Joachim una parte di sé nell’abbandono, nel desiderio, nel piacere – con la prima notte con Elisabeth, quando egli, decisosi a favore di “una vita puntualmente rientrata nei ranghi” (190), si allunga a fianco della sposa, senza svestire la divisa e preoccupato anzi che la finanziera ricopra quella parte del corpo che proprio le nozze chiamerebbero in causa, mentre intorno si addensano le allusioni mortuarie di contro alla febbre di vita che palpita nell’incontro d’amore con Ruzena: “Elisabeth si era fatta un po’ da parte e la sua mano, che sola sporgeva dalla coperta e il cui polso era chiuso da uno smerlo, riposava in quella di lui. Per via della posizione la giubba della divisa si era scomposta un poco. Le falde rovesciate lasciavano vedere i pantaloni neri, e Joachim, non appena se ne accorse, subito si ricompose e coprì la parte rimasta esposta. Adesso aveva tirato su anche le gambe e per impedire che le scarpe di vernice toccassero il lenzuolo, si sforzava di tenere i piedi sulla sedia, accanto al letto. […] Lì distesi e immobili, guardavano il soffitto della stanza dove le fessure delle persiane disegnavano gialle strisce di luce che ricordavano un po’ le costole di uno scheletro. Poi Joachim si assopì, e quando Elisabeth se ne accorse, non poté fare a meno di sorridere. E alla fine anche lei si addormentò” (208-209).

 

 

 

 

Hermann Broch

I sonnambuli

  1. 1888 Pasenow o il romanticismo

Traduzione di Ada Vigliani Con un saggio di Milan Kundera Adelphi, Milano 2020

  1. 230, euro 20,00