Per Boris Pahor

| | |

di Walter Chiereghin

 

Nella scorsa primavera mi posi il problema di riservare uno spazio in queste pagine a Boris Pahor in occasione del suo centoottesimo compleanno, che cade il 26 agosto. La cosa più banale sarebbe stata un mio articolo, una facciata o meglio due che ponessero in evidenza i meriti letterari e civili acquisiti dall’anziano scrittore. Avrei potuto scrivere di una storia che lui ebbe modo di attraversare scontrandosi fin da bambino con una società incomprensibilmente ostile e violenta, che si avviava a negare molti diritti delle minoranze, primo tra tutti quello di usare la propria lingua, riducendo quel bambino – e un’intera comunità – a una sostanziale afasia e quindi a una marginalità senza rimedio.

Avrei anche potuto dire degli anni del suo riappropriarsi di un’identità personale attraverso la frequentazione della lingua e della cultura cui apparteneva, e poi magari della resistenza al regime fascista ormai in stato preagonico, e ancora dell’esperienza terribile dei Lager, dai quali pure era riuscito a venir fuori, minato nel fisico ma non certo nello spirito, in una sua primavera difficile di libertà riacquistata, col conforto di una giovane donna, con l’immersione nella cultura di una Francia che si avviava a diventare per lui una seconda (o terza?) patria.

E poi al mio articolo sarebbe mancato il più: gli anni della scrittura, un intellettuale ancora giovane, che completava con la laurea il suo percorso formativo (ma la sua autentica formazione era transitata per vie ben distanti dalle aule universitarie), avviandosi a diventare – in un agitato dopoguerra triestino – uno scrittore e poi un grande scrittore. E necessariamente lo spazio concesso dal Ponte rosso avrebbe dovuto allargarsi ancora, a contenere le vicende personali, culturali e politiche di ben più che mezzo secolo, per raccontare della fama letteraria acquisita altrove, essendo la sua città e l’intero Paese colpevolmente indifferenti a quanto avveniva dall’altra parte della strada, fino a negare per decenni l’opportunità di tradurre in italiano Necropoli, il libro probabilmente più importante scritto nella città di Svevo e di Saba nella seconda metà del secolo passato.

E al mio articolo, che si avviava nella mia mente a divenire ipertrofico, sarebbe mancato ancora la storia del mio personale rapporto con Pahor, nato faticosamente in occasione di una lunga intervista del 2006 cui ne sarebbero seguite altre, con numerosi colloqui privati e altrettanti incontri pubblici, tra cui, per me memorabile, uno del 2008 nell’aula magna della Scuola Interpreti straripante di folla, in quello che era stato e tornerà ad essere il Narodni dom. Questo rapporto personale tra noi due, nato sotto il segno di una reciproca diffidenza, si è presto sciolto in qualcosa di assai simile a un’amicizia che, naturalmente, non finisce mai di onorarmi.

Mi resi presto conto che il mio vagheggiato articolo non avrebbe mai avuto la possibilità di contenere tutte queste cose, e allora cominciai a chiedere aiuto, dapprima agli amici più vicini, poi allargando sempre più il cerchio di quello che nelle mie intenzioni avrebbe dovuto essere un numero speciale di questa rivista. Anche questa idea si rivelò ben presto insufficiente, perché ad ogni porta alla quale bussai mi fu risposto con un entusiasmo che mi ha sinceramente sorpreso, tanto che ne è scaturita l’idea di raccogliere saggi e testimonianze in un libro, che abbiamo pensato di realizzare assieme alla casa editrice Mladika, che accolse subito la mia proposta. Il libro che ne è uscito, Boris Pahor. Scrittore senza frontiere, realizzato assieme a Nadia Roncelli e a Fulvio Senardi, è frutto di questa non usuale coedizione e rappresenta, grazie al comune impegno di intellettuali italiani e sloveni, una tappa significativa nella bibliografia in italiano riguardante il Nostro. Sarà anche, semplicemente, un regalo per i suoi centootto anni.

Buon compleanno, Professore, e grazie di tutto! Vse najboljše za rojstni dan, dragi Profesor, in najlepša hvala za vse, kar ste nam dali.