Prima i poveri
Editoriale | Il Ponte rosso N° 26 | Luglio Agosto 2017
Il mondo, con velocità e ritmi disuguali, si appresta ad uscire dalla più spinosa crisi economica che abbia attraversato il capitalismo: dal fallimento del settembre 2008 della Lehman Brothers, la banca d’affari di New York gravida di titoli tossici, al nostro presente sono ormai trascorsi nove anni, un periodo sfibrante che ha travolto le condizioni di vita di buona parte degli abitanti del mondo occidentale. Confrontare la società di oggi con quella precedente la crisi risulta, sotto molti aspetti, sconfortante, anche limitando lo sguardo ai confini che segnano il nostro Paese.
Rispetto a nove anni fa s’è allargata a dismisura la forbice della disuguaglianza, ed è aumentato il numero di famiglie e individui poveri. Per intendersi: le famiglie povere erano il 3,6% del totale nel 2008 e sono diventate il 7,9% nel 2016 (dati Istat). Stiamo quindi parlando di oltre 4.740.000 persone che vivono oggi in condizioni di povertà assoluta, e teniamo presente che si tratta soltanto della popolazione residente, e sono quindi esclusi, ad esempio, i richiedenti asilo, nella quasi totalità, presumibilmente, poveri. Se poi allarghiamo lo sguardo a comprendere famiglie ed individui a rischio di povertà e di emarginazione sociale osserviamo anche qui un incremento, sia pure più lieve: dal 25,5% del 2008 al 28,7 del 2015 (sempre dati Istat), dato in ogni modo impressionante.
Questi dati, riferiti a valori assoluti o percentuali del reddito, vanno inoltre integrati da quelli relativi alla precarietà dell’occupazione, aumentata a dismisura per provvedimenti normativi che hanno teso ad aumentare la flessibilità del mercato del lavoro.
In una situazione economica e sociale con queste caratteristiche vi è chi intende focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica, come sempre avviene, su cause “esterne”, tali da deviare l’interesse dalle reali ragioni del malessere sociale indicando altrove il motivo “reale” di ogni contingenza negativa. In passato venivano indicate di volta in volta le potenze straniere, la “perfida Albione”, l’Austria-Ungheria, gli ebrei, gli alloglotti, poi il Patto di Varsavia, il riarmo nucleare, i missili puntati contro l’Europa. Oggi, mischiando dati reali con altri del tutto fasulli, sarà la volta del terrorismo islamico, quindi per estensione i musulmani, poi gli immigrati, i richiedenti asilo, gli zingari, le istituzioni europee.
Si incomincia a intravvedere qual è il risultato ultimo di campagne propagandistiche basate sui valori di opposizione al globalismo, di esaltazione di una sovranità nazionale gelosamente tutelata all’interno di invalicabili confini, di protezionismo economico da attuarsi a tutela intransigente degli interessi nazionali o addirittura locali. La Gran Bretagna della Brexit, gli Stati Uniti affidati alla presidenza di Donald Trump sono i risultati di questa subcultura identitaria e isolazionista, che tende a spostare all’indietro le lancette della storia, facendo regredire l’Unione europea, che negli ultimi sei decenni s’era invece da sempre allargata, o esaltando le tendenze isolazioniste degli USA finora tenute a freno da democratici e repubblicani, con deprecabili riflessi non solo nella circolazione di merci e persone, ma anche, ad esempio, del venir meno dell’esigenza di una lotta comune all’inquinamento e per la difesa del pianeta su cui, tutti, viviamo.
Questo modo d’indicare il falso scopo della difesa del proprio particolare dalla presunta o talvolta reale aggressione dell’altro ha come effetto – non del tutto secondario – quello di sviare l’attenzione da ogni conato di realizzare una società più solidale, riducendo le distanze nella distribuzione della ricchezza a favore di una larga massa di svantaggiati contro una sempre più ristretta cerchia di privilegiati.
Forse sarebbe opportuno, qui da noi, sostituire lo slogan “Prima gli italiani!” con un altro: “Prima i poveri!”, forse meno redditizio dal punto di vista elettorale, ma assai più coinvolgente da quello umano.