Proust e lo sfondo azzurro che resta

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Per i cento anni dalla morte dell’autore

di Domenico Policarpo

 

«È un tempio la Natura, dove a volte parole

escono confuse da viventi pilastri

e che l’uomo attraversa tra foreste di simboli

che gli lanciano occhiate familiari.

 

Come echi che a lungo e da lontano

tendono a un’unità profonda e oscura,

vasta come le tenebre e la luce,

i profumi, i colori e i suoni si rispondono».

 

  1. Baudelaire, Corrispondenze,

da I fiori del male (trad. G. Raboni)

 

Esiste una peculiarità che accomuna, ad esempio, gli Studi di Chopin e la Recherche di Proust, ed è una sorta di costrizione fisica. Lì dove il primo impone allo studente di pianoforte per mezzo dello spartito l’incedere delle mani, l’incrociarsi delle dita – a cui consegue una ben misurata e controllata pressione sui tasti –, il secondo lega tutt’assieme respirazione, occhi, labbra con sillabazioni, accenti, rime interne e virgole: come nel Dante della Commedia che crea ed educa il suo lettore, così anche ne Alla ricerca del tempo perduto abbiamo una forma di educazione “sentimentale”, una Paideia di platonica memoria, dove l’unica condizione che si richiede alla facoltà del conoscere è di conoscere già ciò che si andrà ad apprendere, ovvero di ri-conoscere, e dove la madeleine, questa chiamata della Pizia sacerdotessa d’Apollo – che sussurra ripetutamente all’orecchio del Narratore gnōthi sautón, “conosci te stesso” – è il ricongiungimento di un pensiero nomade e a tratti incostante, labile nelle sue corrispondenze e ancora restio a farsi disciplinare in un rigido dressage psichico, con le sensazioni fisiche richiamate al presente da un passato lontano e riconosciute nuovamente. Forse, per comprendere il superamento di tale dicotomia e questa sintesi tra spirito e materia, ci si dovrebbe avvicinare all’arte conchiusa delle icone bizantine, le quali, stabilita a seguito di una selezione secolare la geometria euclidea più appropriata da distribuire sul piano, e risolto in un unico mysterium l’intensità cromatica adatta a rimettere assieme il problema “fisico” della linea e dell’onda in un solo e accordato fascio di luce, accompagnano lo sguardo del fedele nella lettura magica che lo riconsegna a una epifania estatica nelle zone aperte del divino.

Simile a uno scrittore della physis in quella particolare stratificazione storica che è stata la Belle Époque, nella sua étoile Gilberte o, di più ancora, nelle sue giovani fanciulle in fiore – delle ballerine in posizione o a riposo, in quei corpi ancora acerbi e dunque agili e flessibili somiglianti a cherubini che contornano in una pala d’altare una Resurrezione di Cristo –, si ritrova inscritto il movimento che detiene solo il divenire puro, richiamando da esso stesso la necessità del Tempo. Tra nastrini di seta colorati o vestaglie dai risvolti rosa Tiepolo che si dispiegano in tutù arcobaleno senza soluzione di continuità quale evoluzione naturale delle code iridescenti dei pavoni, tra spalle bianche appena accennate simili a cigni e ciocche di morbidi capelli corvini sistemati ad arte, si susseguono nello spazio in un movimento sur place le possibilità delle forme al contempo di un demi-plié, di un arabesque o di un grand jeté, in un inesauribile «tourbillon de mousseline» (S. Mallarmé, Billet à Whistler), con un dinamismo plastico che ne dilata i volumi come in un quadro di Degas prima e di Boccioni poi.

«Dobbiamo deporre ogni speranza di tornare a dormire a casa nostra, un volta che abbiamo deciso di penetrare nell’antro impestato per cui si accede al mistero, dentro una grande officina vetrata, come quella […] di Saint-Lazare, che dispiegava sopra la città sventrata un cielo immenso e crudo, gravido di accatastate minacce di dramma, simile a certi cieli, d’una modernità quasi parigina, del Mantegna o del Veronese, e sotto il quale non poteva compiersi che un qualche atto terribile e solenne come una partenza in treno o l’erezione della Croce». (All’ombra delle fanciulle in fiore, trad. G. Raboni).

Non diverso da un antico filosofo greco, Proust scriveva per sottrazione, per detrazione dall’oscurità – perché nella Recherche siamo in presenta di ciò che Heidegger chiamerebbe das Lichtende, “ciò che dirada”, al lasciar uscire alla luce nella radura –, da quell’incompreso che solo è immanente, da quella Natura che è contingenza pura, materia bruta non formata. Era la sua una scrittura volta ad impressionare per mezzo di specchi, lenti, lanterne magiche, ciò che in verità non gli si presentava davanti allo sguardo. Simboli, allegorie, «paraphernalia, fabula de lineo et coloribus» (il Vasari?) erano leggende appartenenti ad un’altra specie di homo sapiens sapiens comparso sulla terra secoli prima. L’unico segno che si mostrava era il buio della caverna dalla quale intravedeva delle macchie di luce ambrata e delle ombre. Di fronte a un geroglifico a lui incomprensibile, era concesso al Narratore soltanto di avanzare delle ipotesi – dei Mantegna ou de Véronèse, delle conversioni o martìri di santi, delle Madonne con Bambino –, riprendendo la storia di una religione mitica raffigurata nei Guermantes e trovando in essa elementi a supporto delle proprie intuizioni; fino a diventarne, di quelle leggi più vicine alla Natura che alle volontà del singolo, su intercessione delle dea Themis, complice.

«Ma più tardi compresi che la stupefacente singolarità, la bellezza particolare di quegli affreschi, sta nel gran posto che vi tiene il simbolo, e che il fatto ch’esso sia rappresentato non come un simbolo, poiché l’idea simboleggiata non è espressa, ma come reale, come effettivamente subito o materialmente maneggiato, dà al significato dell’opera qualcosa di più letterale e di più preciso, al suo insegnamento qualcosa di più concreto e di più evidente.» (Dalla parte di Swann, trad. N. Ginzburg).

Presi singolarmente e poi tenuti assieme in un unico disegno, quelle geometrie prendevano forma come in una statua della Menade danzante seguace di Dioniso a cui è stata conferita la dolcezza delle ombre e la successione dei piani presenti in Natura, e dove, per riaverne l’intensità, non bisognava che la figura fosse tutta intera, ma che lo spazio creatosi dalla mancanza venisse completato dalla mente del chér Marcel, la quale, riempiendo quei vuoti e quei pieni con i ricordi della memoria involontaria, infondeva alle proprie sculture la vita con un soffio, superando i limiti dettati dalla materia e dal Tempo presente, e conferendogli invece le profondità di un Brunelleschi.

In Essere e tempo Heidegger scriveva «la morte è la più personale possibilità di esistenza». Per il filosofo tedesco Sein-zum-Tode, “l’essere-per-la-morte”, non era da intendersi come una qualità dell’esistenza, ma come una indicazione, un movimento al fine di trasformarci nel nostro essere-nel-mondo. L’essere-per-la-morte sarebbe dunque da considerarsi più come un quesito che “apre” piuttosto che a una risposta che ci viene data  – gnōthi sautón –, e la madeleine – quel momento di ex-stasis, di “essere fuori” – è per il Narratore questa indicazione, questa chiamata alla metamorfosi in un esser-ci in cui il pensiero si deve dare come agire, ovvero la scrittura. Proust scriverà fino agli ultimi giorni della sua vita, un lavoro ininterrotto sui cahiers che è da intendersi come una continua trasformazione dell’esser-ci dell’autore, e dove i periodi lunghi e sinuosi sono a loro volta momenti di arrivo e di rilancio alla continua domanda postaci dall’essere-per-la-morte; un camminare sul perimetro di un cerchio guardando ad un centro che si manifesta così in quanto tale senza un’immagine stabile ma poliedrica nel Tempo, in un’opera che si avvita su se stessa scritta da un Sisifo felice del compito di dover perennemente risalire la sua rupe.

Marcel Proust morirà il 18 novembre 1922 verso le cinque del pomeriggio nell’appartamento al numero 44 di rue Hamelin. I funerali si svolgeranno nella vecchia chiesa di Saint-Pierre-de-Chaillot; infine verrà sepolto nel cimitero di Père-Lachaise – la semplice lapide in marmo nero con sopra appena accennata in rilievo una croce templare. Resta un colore – quindi una luce – piatto all’apparenza come piatto sembra il silenzio di una persona che se n’è andata; resta lo sfondo azzurro del ramo di mandorlo in fiore di Van Gogh.