QUARANTOTTI GAMBINI SECONDO COVACICH

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di Cristina Benussi

 

Irregolare Pierantonio Quarantotti Gambini lo era di certo, tanto da fargli pensare che se un giorno avesse scritto la propria autobiografia l’avrebbe intitolata Un italiano sbagliato. L’Introduzione di Mauro Covacich al volume delle sue Opere scelte, edite quest’anno da Bompiani, mette dunque bene in evidenza alcune delle anomalie del personaggio: bibliotecario e grande viaggiatore; scrittore triestino in controtendenza rispetto alle tematiche sollevate dal grande classico della Mitteleuropa, Svevo; nemico di Tito ma non fascista; fiancheggiatore del Comitato di liberazione nazionale e subito dopo attivista di una radio attraverso cui passano informazione per l’intelligence americana, e così via. Tenendo conto della complessità di una prospettiva d’analisi, Mauro Covacich introduce alla lettura dell’opera di Quarantotti Gambini, sia attraverso la sua produzione narrativa che quella giornalistica: attente sono le analisi del racconto lungo L’onda dell’incrociatore e dei tre pezzi confluiti poi nel romanzo postumo Gli anni ciechi; e puntuali sono le ricostruzioni storiche che permettono di entrare nello specifico della produzione saggistica dello scrittore giuliano, politica in particolare con Primavera a Trieste e Altri scritti, e odeporica, soprattutto con Sotto il cielo di Russia e Neve a Manhattan.

L’Introduzione mette subito in evidenza la distanza che separa questo dall’ autore più significativo della triestinità, Svevo. A cominciare dalla luce e dall’aria che caratterizzano la sacchetta, luogo dove si svolge l’azione, e che contrastano con il grigio interiore dei personaggi sveviani, inetti, Covacich squaderna tutta una serie di antinomie capaci di mostrare la presenza di un’altra immagine cittadina. Percorsi da una sensualità edonistica antitetica a quella dei nevrotici analizzatori di se stessi, come Zeno, sono dunque i protagonisti dell’Onda dell’incrociatore, capaci di simbolizzare un altro volto di Trieste, quello marinaro e levantino. Certo, tutt’altro che solare è la gioventù maschile e femminile, che si misura con i comportamenti ambigui e truffaldini degli adulti, quali ad esempio la madre del protagonista, o il concupito Enea, aspirante campione olimpionico di canottaggio, in realtà un bullo arrogante e rozzo. Appare così in tutta la sua vischiosità la tessitura dei rapporti sadici, fatti di attrazioni e ripulse, in un continuo spiare e tradire reciproco dei personaggi. Nell’arco di una giornata, aperta dagli squilli della fanfare che salutano le navi militari venute per celebrare la vittoriosa guerra d’Africa nel 1937, e chiusa con la morte dell’alpino addormentatosi in una maona e travolto dall’onda sollevata da un incrociatore, il protagonista ripercorre gli episodi salienti della sua vita, recuperati a scatti, in sequenze ora distese, ora drammatiche, ora oniriche.

Andrebbe spiegato, tuttavia, che nel 1947, anno in cui esce L’onda dell’incrociatore, l’autore, che aveva già depositato racconti significativi, sta pensando a un tema che affronti una problematica per lui particolarmente intrigante, la necessità di valutare il significato di un nazionalismo insensato eppure non ancora respinto e di fare i conti con un passato esistenziale che ancora pesa. Anche nel ciclo in parte successivo, Gli anni ciechi, l’analisi ritorna sul tema dell’incompiutezza, ovvero sui momenti in cui il protagonista Paolo, personaggio costruito su molte circostanze autobiografiche, indugia e rimanda il passaggio della sua linea d’ombra; e ciò sia sul piano privato, con l'”inconsapevole” rinuncia a Norma, sua compagna di giochi non proprio innocenti durante l’adolescenza, sia su quello storico. Mentre l’Istria, uscita dalla Grande Guerra, da austriaca diventa italiana, il protagonista, seguito nella crescita a partire dall'”inconsapevole” e fanciullesca adesione nazionalista, viene lasciato nel momento della disillusione, quando si accorge che gli italiani, attesi a lungo dalla sua famiglia, sono anche loro dei bulli, capaci di azioni ignobili. E quando capisce che altre lacerazioni attendono quel mondo, nel momento in cui il fascismo si attesta in una posizione di contrapposizione al mondo slavo.

E forse andrebbe anche sottolineato come, rispetto alle atmosfere di Svevo, quelle di Quarantotti Gambini risentano di un altro cronotopo, quello istriano, legato alla natura solare di una penisola agricola protesa nel mare, profondamente diverso dall’ambiente cittadino. Le competizioni fisiche tra ragazzi lasciati liberi nella natura nulla hanno a che vedere con quelle intellettuali di cittadini nevrotici. Anche le tematiche poste sul tappeto da Svevo risultano estranee rispetto alla scoperta di nuove dimensioni esistenziali: Saba si apre al mondo esterno, e scopre le creature della vita e del dolore. Le tre anime di Trieste, città di mare, circondata da un altopiano contadino, e nello stesso tempo luogo dal carattere metropolitano, esplodono anche nella definizione di un territorio attraversato da nuovi e incerti confini. Il nodo biografico di una marginalità, la cui consapevolezza segna la distanza da un passato opulento, è oggetto di una sofferta rielaborazione interiore e di un confronto continuo e irrisolto con se stessi. Pierantonio Quarantotti Gambini, con Manlio Cecovini, Stelio Mattioni, Giorgio Voghera, Enrico Morovich, Anita Pittoni appartiene a una koinè culturale che ha attraverso la lezione di Proust, di Kafka, del surrealismo, prima di affrontare temi che, in epoca neorealista, obbliga lui e i suoi compagni di scrittura a continui processi di mediazione e di trasposizione culturale, configurando identità dinamiche e contraddittorie, che si contaminano, tra l’altro, con quelle di una cultura slava che riemerge da un ventennio di silenzio coatto, e che naturalmente è più orientata a Sud. Ivo Andrić, che aveva avuto un incarico diplomatico a Trieste, è uno delle possibili scritture parallele che attraversano il confine. Bazlen da par suo spostava ancora più a Oriente il suo interesse per modelli culturali capaci di ridefinire e riposizionare quelli allora pericolosamente inclini verso un occidente decisamente tecnocratico. E lo sapeva bene, perché a Trieste prendevano forma immagini e suoni portati dagli anglo-americani, qui presenti fino al 1954. Mi rendo conto che sarà necessario riaprire il discorso sui caratteri della seconda e terza generazione della letteratura triestina.

Molto equilibrato appare il commento del saggio Primavera a Trieste, del 1951. Covacich insiste sul tema della differenza, drammatica, tra situazione di occupazione e quella di liberazione, in una prospettiva storica complessa, che Quarantotti Gambini vive riproponendo sul piano dell’analisi storica lo stesso senso di smarrimento e di rabbia che Paolo aveva provato contro Norma, nei loro antichi giochi sulle trincee. E il doppio sguardo di un “italiano sbagliato” si fa largo anche nei resoconti di viaggio in Russia e in America, se gli stereotipi attraverso cui venivano identificati i due paesi che a lungo si sono disputati l’egemonia, vengono smontati, e rimontati per costruire due immagini in cui luci ed ombre si compenetrano inestricabilmente. Non vuole passare neppure qui la linea d’ombra che lo intriga: «mio caro “Bambino Pierantonio”», gli scrive ancora Saba il 15 gennaio 1957 nell’ultima lettera di un carteggio curato da Linuccia Saba e riprodotto nell’antologia di Bompiani. E i poeti sanno bene cosa significhi essere bambini.

 

 

Pier Antonio Quarantotti Gambini, Opere scelte, Introduzione di Mauro Covacich, Bompiani, 2015, pp. XLIV-1499, euro 35