Quel Rogers made in Italy

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Era nato a Firenze da madre triestina il famoso architetto da poco scomparso

di Roberto Curci

 

«Mi chiamo Rogers ma i miei genitori sono italiani: mia madre è nata a Trieste, mio padre, italiano anche lui, ha avuto un avo inglese che ci ha dato questo cognome. Ci siamo trasferiti in Inghilterra allo scoppio della seconda guerra mondiale, avevo cinque anni, ma l’Italia è nel mio sangue e nel mio Dna».

Così parlò l’architetto superstar Richard Rogers, in un’intervista pubblicata su Vanity Fair nel 2020. Un anno dopo Rogers sarebbe mancato, il 18 dicembre, a 88 anni (era nato a Firenze nel ’33), ma i vari obituaries apparsi un po’ ovunque avrebbero talora equivocato proprio sulle sue radici familiari. Perfino il quotidiano della città natale della madre avrebbe scritto di «genitori britannici»,  benché almeno un paio di precedenti articoli (l’ultimo a firma di Lisa Corva nel marzo 2020) avessero ben approfondito i legami affettivi che univano Rogers e Trieste.

Di nome il padre di Richard faceva William Nino, la madre Dada: entrambi presenze molto forti nella formazione del futuro archistar, tanto più che cugino del padre era a sua volta un architetto di consolidata fama, quell’Ernesto Nathan Rogers nato egli pure a Trieste nel 1909 , e negli anni Trenta attivo nello storico gruppo BBPR il cui inconfondibile emblema rimane (ancorché costruita a metà degli anni Cinquanta) la milanese Torre Velasca. (Suo, come si sa, anche l’ex distributore dell’”Aquila” di Riva Grumula, a Trieste, oggi a lui intitolato come Stazione Rogers).

Della propria semi-triestinità  Richard Rogers andava fiero (così come dei legami con la terra toscana dov’era nato), anche perché la madre discendeva da una famiglia eminente, i Geiringer, che nella città giuliana aveva lasciato più di un’impronta di tutto rilievo. Delle sue fortune era stato principale artefice l’architetto-ingegnere Eugenio Geiringer (1844-1904), figura rilevantissima dell’élite politico-culturale della Trieste ottocentesca, impegnato in un ampio ventaglio di istituzioni economiche e culturali cittadine, patrocinatore del potenziamento del porto, fautore della linea ferroviaria Trieste-Vienna con lo scavalcamento dei Tauri, autore di palazzi di originale gusto eclettico (ex Hotel Vanoli, palazzo delle Assicurazioni Generali, Villa Basevi, ecc.), infine ideatore nel 1896 di quel “capriccio” architettonico noto a tutt’oggi come Castelletto Geiringer, sulla sommità del colle di Scorcola, che egli intendeva destinare a propria residenza privata e che volle collegare con il centro cittadino grazie a un’apposita tramvia a cremagliera.

Geiringer e Rogers, dunque: cognomi di chiara ascendenza ebraica. In effetti, William Nino, Dada e Richard Rogers se ne sarebbero andati dall’Italia all’annuncio delle leggi razziali, nel 1938, quando Richard aveva appunto cinque anni, e non allo scoppio della guerra. Nei Geiringer ci sarebbe stata invece una dolorosa frattura: il patriarca (Moisè Eugenio, e non solo Eugenio, a essere precisi) si converte al cattolicesimo già negli anni Ottanta dell’Ottocento, e ne dà conferma la tomba di famiglia nel cimitero di Sant’Anna, che ospita i resti di numerosi Geiringer. Il che non salverà il quarto dei suoi sette figli, Pietro, condirettore delle Assicurazioni Generali, dalle camere a gas di Auschwitz, assieme alla moglie Fanny Vivante, e a un figlio, Claudio.

Quanto a Richard, ormai naturalizzato inglese, tornerà una prima volta a Trieste da soldato di Sua Maestà nei primi anni Cinquanta, al tempo dell’occupazione alleata postbellica. All’architettura penserà poi, frequentando una prestigiosa scuola a Londra e quindi in America, alla Yale University. E sarà qui che comincerà la sua avventura professionale, con la creazione del primo studio assieme a un altro giovane fresco di laurea e destinato anch’egli a notorietà planetaria, Norman Foster. Prime commissioni, primi lavori.

Sono gli ultimi anni dei Favolosi Sessanta, e alla collaborazione con Foster succede il fortunato incontro con un altro giovane architetto italiano, Renzo Piano. Insieme, con un progetto d’avanguardia che mette a nudo tutto ciò che in un edificio solitamente è celato (tubature, condutture, scale mobili), Rogers e Piano vincono nel 1971 il concorso per il Centre Pompidou di Parigi, alias Beaubourg, completato nel ’77. Per tanti uno choc, per i due partner un clamoroso successo.

Da qui la strada è tutta in discesa, all’insegna di una tecnica edificatoria definita hi-tech, per l’impiego altamente originale che Rogers (ormai messosi in proprio) fa di acciaio e materiali sintetici. Verranno il palazzo londinese dei Lloyd’s, il grattacielo Leadenhall Building dal profilo seghettato su cui molti ironizzano (“una grattugia”), la maxi-cupola del Millennium Dome. E ancora il palazzo del Tribunale europeo per i diritti dell’uomo a Strasburgo, l’aeroporto di Madrid-Barajas, il palazzo di giustizia di Bordeaux, e decine di altre invenzioni in Finlandia, negli Usa, in Australia, in Giappone, a Taiwan.

Ma sarà forse l’impresa più semplice a dare a Richard la maggior soddisfazione: la Wimbledon House, a un solo piano e dalle enormi pareti scorrevoli, che già nel 1968-’70 egli realizzerà come regalo per i propri genitori, e per la madre in particolare, sempre rimasta al suo fianco, attiva pure lei nel mondo dell’arte come notevole ceramista. Conterà più la gioia di William Nino e di Dada dei due “Nobel per l’architettura” che Richard vincerà nel 2000 (Praemium Imperiale) e nel 2007 (Premio Pritzker), e perfino della pur ambita carica di baronetto.

Riassumerà la propria ricca esperienza di vita e di professionalità in un’autobiografia (molto originale anch’essa) edita da Johan & Levi, Un posto per tutti. Vita, architettura e società giusta. In cui non manca qualche spruzzata di triestinità, né il ricordo infantile della dimora fiorentina con vista sulla cupola del Brunelleschi. Forse il primo imprinting…

 

 

Renzo Piano e Richard Rogers

prima dell’inaugurazione

del Beaubourg da loro progettato (1977)