Un festival nel segno dell’Ucraina

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di Stefano Crisafulli

 

Un’anziana donna ucraina e la sua capra sono al centro del manifesto scelto per rappresentare il Trieste Film Festival n. 34. A scattarla è stato il fotografo Oleksandr Rupeta, ucraino anche lui, la cui opera è stata protagonista di una mostra alla DoubleRoom Arti Visive dal 12/1 al 24/2. E non poteva che essere un festival nel segno dell’Ucraina, martoriata da una guerra ancora in corso con la Russia di Putin, a caratterizzare questa trentaquattresima edizione, tenutasi dal 21 al 28 gennaio sotto l’esperta direzione artistica di Nicoletta Romeo. Lo dimostra un’intera sezione a cura di Massimo Tria, ‘Wild roses’, dedicata alle registe ucraine e alle loro produzioni, che si è svolta in una delle sale scelte quest’anno per le proiezioni dei film, quella storica del Teatro Miela.

In effetti il primo festival post pandemico ha visto la partecipazione di nuovo massiccia del pubblico, accanto, però, alla necessità di reperire luoghi consoni al festival, dopo l’abbattimento della sala Tripcovich. Oltre al Teatro Miela si è pensato giustamente di riutilizzare il cinema Ambasciatori e il Teatro Rossetti, che però nel frattempo aveva ripreso la sua abituale programmazione, col risultato di condensare i lungometraggi in concorso in soli quattro giorni.

Ma, si sa, coi festival accade spesso che le maratone cinematografiche siano la regola, non l’eccezione. E così ci sono state ben due serate inaugurali: la prima in apertura del festival, sabato 21 gennaio con il film L’uomo più felice del mondo della regista Teona Mitevska, di cui parliamo a parte, e, di seguito, con il lungometraggio fuori concorso La lunga corsa di Andrea Magnani (regista del sorprendente film d’esordio Easy); la seconda martedì 24 gennaio con la cerimonia d’apertura al Teatro Rossetti, che ha decretato il premio come miglior film della critica a Gli orsi non esistono di Jafar Panahi (regista iraniano recentemente scarcerato dopo un periodo di detenzione di sette mesi solo per aver chiesto notizie di un collega, a sua volta nei guai con il regime) e come miglior film italiano della critica a Piccolo corpo di Laura Samani, regista triestina già premiata con un David di Donatello per lo stesso titolo.

A fine premiazioni sono stati proiettati il corto della Samani L’estate è finita – appunti su Furio e Il boemo di Petr Vaclav. Per quanto riguarda i film in concorso, a vincere il premio come miglior lungometraggio del festival è stato Sonne di Kurdwin Ajub, regista nata in Iraq, mentre il premio per il miglior documentario è andato a Scenes with my father di Biserka Suran. Ed infine il cortometraggio Plima di Eva Vidan si è aggiudicato il primo premio per questa categoria. Personalmente, segnalerei altri film o documentari che magari non hanno incassato alcun premio, ma che meritano di essere visti, a cominciare, appunto, dal film di apertura, per proseguire con Pryvoz, ovvero il racconto della regista ucraina Eva Nejman sulle vite che costellano uno dei mercati più vecchi d’Europa, e con Akyn (Poeta), film kazako di D. Omirbaev nella sezione ‘Fuori dagli sche(r)mi’, sino al documentario Trieste è bella di notte, di Andrea Segre, Matteo Calore e Stefano Collizzolli, che testimonia l’odissea dei migranti della rotta balcanica.