Quell’indomabile Anita

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Sulla Pittoni un’esaustiva monografia nella collana d’arte della Fondazione CrT

di Roberto Curci

 

«Sono una donna stramba». Sic. Un’autodiagnosi lapidaria, impietosa. Ma era davvero «stramba», come si definì un giorno mettendolo per iscritto, Anita Pittoni? Oppure era, piuttosto, «dinamica, anticonformista, complessa e per certi versi geniale» come scrive Rossella Cuffaro nella densa monografia a lei dedicata e da poco uscita nella collana d’arte della Fondazione CrT (introduzione di Alessandro Del Puppo)?

Di sicuro, quando era ormai anziana, spossata e perfino sloggiata dall’amata casa-studio di via Cassa di Risparmio 1, Anita divenne a Trieste la rompiscatole per antonomasia e i suoi ultimi anni, fino a quel 1982 in cui si spense ai Lungodegenti di San Giovanni, furono scanditi dalla vana ricerca di quell’”affetto” che reclamava, pretendeva, esigeva da una città cui aveva dato tanto e che invece risultava ostinatamente “dura”, così come – bambina – aveva chiesto e richiesto dalla madre troppo affaccendata “un baseto” non distratto ma che fosse “un baseto de cuor”.

Sicché tutti coloro ai quali negli anni del declino si rivolse, e che da lei si sentirono talora incalzati o perseguitati, non lesinarono nei suoi confronti aggettivi malevoli: donna difficile, insopportabile, prepotente, egocentrica, pedante, invadente. Che fosse egocentrica, è indubbio: era stato appunto il suo formidabile ego, di donna forte, sola, indipendente e “diversa” («non ho casa, non ho marito, non ho figli»), a segnarne la rotta esistenziale e artistica, rendendola una ben rara avis in tempi in cui la figura femminile obbediva ancora a stereotipi riduttivi e castranti. E tuttavia la sua cocciuta solitudine anelava pur sempre a un rispecchiamento, a un riconoscimento del suo talento e della sua innovativa opera di artigiana-artista, prima, e di poetessa-editrice, poi.

Fecondo e gratificante soltanto negli «anni del successo» che vanno dal 1931 al 1942, il percorso della Pittoni è riesaminato e ricostruito da Cuffaro sulla base soprattutto «del suo grande e articolato archivio» (Fondo Anita Pittoni, Biblioteca Civica A. Hortis), ma non si spegne il rammarico per la dissennata dispersione che dopo la sua morte si fece di tanta sua produzione e di tanta documentazione attinente: a conferma di quella che a più d’uno sembrò poco meno di un’incomprensibile e affatto ingiusta damnatio memoriae.

Uscita con ottimi voti dal Liceo Femminile Comunale, con una già precisa vocazione al disegno, costretta a rinunciare agli studi universitari per le ristrettezze economiche della famiglia dopo la morte prematura del padre, Anita affiancò per anni la madre e la nonna nel loro lavoro di sarte e ricamatrici. «Negli anni tra il 1919 e il 1927 imparò […] tutti i segreti dell’ago e dell’uncinetto. A lavorare a ferri si dedicò più tardi».

Ma fu il 1928 l’anno “dirompente”: «Si può dire – scrive Cuffaro – che quasi tutta la sua vita professionale venne plasmata dalle esperienze di quell’anno». Anita compie un illuminante viaggio a Vienna dove s’imbatte nella Wiener Werstätte: una rivelazione. Lasciata la casa di famiglia, va a convivere “in libero amore” con colui che sarà il primo dei tre storici compagni della sua vita. Ma quello che diverrà il suo operativo laboratorio lo trova grazie all’ospitalità delle sorelle Wanda e Marion Wulz, nel loro studio fotografico agli ultimi due piani di Casa Hierschel, sul Corso: tre giovani donne unite dall’adesione a «un modello di femminilità energica, indipendente, moderna».

è qui, come Anita ricorderà molti anni dopo, che nel luglio del ’28 «lavoro all’uncinetto il mio primo golfino professionale», con una tecnica innovativa, di audace creatività. Non è che l’avvio di una produzione intensiva di abiti e accessori che si avvarrà dell’importante collaborazione del disegnatore Marcello Claris, con un’impronta futurista vicina altresì a quanto, altrove, osa proporre Fortunato Depero. è Marion Wulz, fotografata dalla sorella (foto bellissime, oggi negli Archivi Alinari), che si presta a fare da modella delle creazioni di Anita: «Dai primi gilet di impronta futurista a creazioni in panno, a uncinetto e a ferri, a collari per abito, gonne pareo, sciarpe e borsette».

Anita è irrefrenabile e comincia a pensare in grande: allaccia rapporti con parecchi artisti, non solo triestini o giuliani, si fa sempre più conoscere fuori della città di origine, inizia a esporre e Anton Giulio Bragaglia le allestisce a Roma una mostra che riscuote grande successo. Ma, ciò che più conta, prende vita il progetto dello Studio d’Arte Decorativa («stoffe di arredamento, moda di eccezione»), che per un ventennio vedrà alternarsi quasi un centinaio di giovani e mature donne come lavoranti esecutrici dei più svariati progetti tessili di Anita, legati appunto alla moda (comodità, eleganza, semplicità sono le parole d’ordine), ma pure alla decorazione degli interni: “complementi d’arredo”, tende, tovaglie, coperte, arazzi, stuoie…

Anni Trenta, anni d’oro. Le scelte di Anita (modelli, disegni, materiali) sono d’altronde in piena sintonia con la politica autarchica del regime, basata sulla valorizzazione delle risorse nazionali perfino nel campo dell’abbigliamento, in antagonismo con le frivolezze di estrazione parigina. «I filati adoperati – scriverà Anita – sono nella maggior parte quelli più umili: la juta, la canapa da pesca, il lino grezzo, la ginestra grezza, tutti filati ‘da barca’: li facevo candeggiare e poi tingere nei colori della mia personale tavolozza. (Dirò, tra parentesi, che a me piace in modo particolare tutto quello che è umile e che poi la perfezione della lavorazione e l’altezza della creazione artistica trasfigura). Creavo anche nuovi filati inducendo certa grande industria a prepararmeli come li desideravo e di materie non uscite ancora».

Un solo esempio: gli stabilimenti della Snia-Viscosa di Torre di Zuino (poi Torviscosa) iniziano a produrre all’epoca il lanital, una lana sintetica perfettamente filabile, ottenuta con un procedimento di trasformazione della caseina e capace di assorbire l’umidità e di produrre calore.

è minuziosa ed empatica la ricostruzione che di quegli anni fortunati, fatti di tanto appassionato lavoro ma anche di mostre nazionali e internazionali, di soddisfazioni e riconoscimenti, fa Rossella Cuffaro nel suo studio, inanellando testimonianze e documentazione attinta anche da fonti imprevedibili. Un’esemplare acribia con cui affronta poi gli anni, sempre più difficili, del dopoguerra («La fine di un sogno:1945-1973»), fino a quelle che definisce «Le ultime inutili battaglie»: progetti abortiti, materiali inviati per mostre d’oltre Atlantico e mai restituiti, impossibilità – per i tempi cambiati: tempi di vacche magre… – di proporre nuovi o vecchi modelli di alta gamma, sparizione di opere finite forse in discarica, e – soprattutto – dolorosa chiusura dello Studio d’Arte Decorativa.

Eppure la consapevolezza del proprio valore mai abbandonò Anita, e fu ad essa e alla subentrata impossibilità di continuare a darne prova che si dovette il suo progressivo, sconsolato ma mai rassegnato isolamento, e pure la “persecuzione” che a posteriori le fu addebitata da amici e conoscenti cui invano si rivolse, alla ricerca, se non di concreto aiuto, di quel “baseto de cuor” che le sarebbe stato più che mai necessario.

Non dubitò di sé stessa neppure negli anni bui. Nel 1966 scrisse a Carlo Ludovico Ragghianti: «Sono stata la prima in Italia a fare arte moderna nel campo dei tessili […]. Ho l’archivio fotografico fin dal primo lavoro (un golf moderno), c’ero arrivata 5 anni prima delle Deux Soeurs Claudine di Parigi… Che bei tempi! Ho dato il via alle stoffe moderne in Italia ed ho una ricca bibliografia critica». Orgogliosa fino all’ultimo, e fino all’ultimo avida di un riscatto che non venne.

Restano da dire parecchie cose, che – dopo l’articolato saggio di Cuffaro – rendono questo volume davvero esaustivo, dopo i numerosi interventi parziali dedicati ad Anita post mortem. Anzitutto la ricca campionatura delle opere riprodotte: 26, con le relative ampie schede, dall’”Abito futurista” del 1929 al volumetto intitolato Piccola casa, del 1945, transitando per disegni e bozzetti per costumi teatrali, per abiti, tendaggi e pannelli, non ultimo il maxi-ricamo (più di cinque metri per tre) intitolato “Li Fioretti di Sancto Francesco” oggi visibile nell’aula magna dell’Università. Stupisce, ancora e ancora, la “modernità” di certe scelte e certe soluzioni di design: l’”Abito e mantellina con cappuccio, in lana e filato di rame”, lo si potrebbe agevolmente vedere indossato da qualche diva d’oggidì in esibizione sul red carpet di qualche festival del cinema.

Ma non basta. Una golosa appendice è costituita dal capitolo intitolato Un’artista tra futurismo, avanguardie e modernità dove la protagonista non è Anita ma una decina di artisti a lei variamente connessi o di lei in qualche misura debitori: basti dire che vi sono “assaggi” (foto di opere o ambienti, ritratti o lettere) di Gustavo Pulitzer Finali, Marcello Claris, Wanda Wulz, Dyalma Stultus, Giorgio Carmelich, Agnoldomenico Pica (cui Anita fu a lungo sentimentalmente legata), Urbano Corva, Studio BBPR, Nicoletta Costa.

Quanto ai conclusivi Apparati, vi è una preziosa selezione degli scritti di Anita, da cui, tra mille altre cose, si evince che ancora nel 1963 lei inseguiva il sogno – ma concretamente ipotizzandolo, con la creazione di un’apposita scuola – di «un’industria tessile senza macchine». Seguono la Bibliografia di Anita e la Bibliografia generale, nonché il riepilogo dei “Convegni e spettacoli” e delle “Esposizioni”.

Più che una monografia, insomma, un monumento ad Anita Pittoni. Certo più bello del busto bronzeo tardivamente elargitole (1998) nel Giardino pubblico di Trieste…

 

Rossella Cuffaro

Anita Pittoni

Un’artista tra futurismo,

avanguardie e modernità

Fondazione CRTrieste

Trieste, 2022

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