Raccontare per non morire

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Riccardo Redivo mette in scena il “gioco” serissimo della letteratura, che, per quanto sia artificiale, è un modo di reagire alla morte, un’affermazione della vita

di Gianni Cimador

 

Riccardo Redivo, triestino, è uno scrittore che si muove abilmente su più ‘tavoli’: dalla saggistica, con i suoi studi su Boris Pahor, Alda Merini e sui rapporti tra musica e letteratura, alla poesia (Uvala, Sillabe di Sale, 2017), alla prosa, con Era un appassionato di arcobaleni (Il Seme Bianco, 2018) e Mismas. Umanità sotto assedio (Sensibili alle Foglie, 2020), due libri che richiamano molto la narrativa di Antonio Moresco e che sono altrettanto inclassificabili e sfuggenti, anche per la molteplicità di personaggi e storie che si intrecciano e si sovrappongono, per il rapporto di “necessità amorosa” tra lo scrittore e il racconto, per la centralità assoluta che, in essi, ha la libertà dell’affabulazione, per cui “Ogni storia continua un’altra. Semplicemente è un po’ nascosta, o non è facilmente decifrabile, ma è sempre la stessa catena, quella del o dei linguaggi”.

Anche Redivo vuole sperimentare e forzare le barriere del narrabile e, al di là della cornice in cui si collocano le diverse storie, non è facile individuare una trama o riconoscere un registro stilistico omogeneo: viene esibito il “gioco” della letteratura, un gioco serio però, dove il racconto è espressione dei desideri più profondi dell’uomo, della ricerca insopprimibile del senso dell’esistenza che, per l’appunto, si gioca tutto nei momenti della scrittura e della lettura («Se scrivo esisto, se mi leggete esistete»).

I personaggi hanno la consapevolezza di essere personaggi e il narratore, che li coinvolge e ne viene spesso sopraffatto, è consapevole del suo difficile ruolo di “mediatore”, chiamando in causa anche il lettore, e del fatto che, quando i fantasmi dell’immaginazione vengono evocati e iniziano a diffondersi, è molto difficile poi controllarli: il piacere del racconto, sia di chi lo fa sia di chi lo ascolta, è dirompente, più forte di ogni altra cosa, è quasi una perversione per quanto a fondo può scavare nell’animo umano. Paradossalmente, la letteratura, pur con il suo carattere astratto e le sue “finzioni”, coglie l’essenza più autentica della vita che sembra potersi disvelare solo per sottrazione.

Come Mismas, anche Era un appassionato di arcobaleni è un racconto lungo polifonico, un coro di voci, quelle degli amici di un edicolante, che, in diversi modi e con diverse strategie, cercano di imporsi sulla scena e di catturare l’attenzione del lettore con i loro racconti, battute, riflessioni, ci fanno partecipare in prima persona a una conversazione animata e fluida, nella quale non siamo sempre in grado di capire chi abbia preso la parola e veniamo trascinati dalla corrente del racconto: il cuore del libro è una storia d’amore finita male, un diario intimo ricostruito attraverso messaggi sms e mail e commentato da vari interlocutori che alternano toni umoristici e più riflessivi, moltiplicando i punti di vista sulla vicenda, sempre oscillanti tra realtà e immaginazione.

Come Moresco, che ha ispirato il titolo di Era un appassionato di arcobaleni, Redivo cerca una scrittura viva, seppure consapevole della sua finzionalità, dal respiro proustiano, che superi la singolarità dell’autore e crei empatia nel lettore, restituendogli differenti livelli di realtà e mostrandogli più mondi paralleli e compresenti: ricorda Moresco quando afferma che “Scrivendo io entro in un meccanismo di moltiplicazione delle conoscenze”.

Al centro di Era un appassionato di arcobaleni, come anche di Mismas, è il cortocircuito tra vita e morte, tra la ricerca della felicità e l’esperienza del dolore, con la consapevolezza che «La sottrazione è l’unica arma. Meno si è e più si è» e che «Questa è la verità, il dolore dura più dell’amore. Forse innamorarsi del dolore renderebbe più leggera la vita»: Redivo, sempre con un pizzico di ironia e sovvertendo i meccanismi narrativi dell’identificazione o teatralizzandoli, si avventura nelle zone in ombra dell’esistenza, nelle sue contraddizioni; esplora il confine tra ciò che è narrabile, plausibile, e ciò che potrebbe essere narrato ed è ancora inesplorato; sente, come Moresco, l’attrazione irresistibile nei confronti dell’ “increato”, dell’illimitato, e vuole trasformarla in conoscenza.

In Mismas. Umanità sotto assedio il poeta Giancarlo Vigini e la compagna Rosa perdono i sensi dopo un incidente d’auto e si risvegliano a “Mismas”, una comunità “arcobalenica” nata nella periferia di Trieste e composta da «migranti, profughi, zingari, clandestini, girovaghi, raminghi, senzatetto, poveri, poverissimi, puttane, spacciatori, malati, derelitti, gente insomma di tutte le risme e proveniente dalle più disparate zone del pianeta»: è un luogo a parte, un “corpo babelico” e quasi extraterritoriale, che rappresenta un’umanità emarginata, ignorata dal mondo circostante, ma vitalissima, solidale e ancora capace di produrre poesia.

Saranno proprio i racconti di questa umanità a salvare Rosa, sospesa tra la vita e la morte, mentre per Vigini è come se si chiudesse un cerchio, perché da anni si occupa di quei derelitti che ora si prendono cura della coppia, parla di loro, li comprende e difende contro il fanatismo e il razzismo alimentati dalla televisione e dai giornali: il poeta si rende conto  che «quella gente derelitta, bistrattata, tanto amata da loro due, stava assistendo non solo loro ma anche quello che lui rappresentava, una specie di bora di quel bosco gentile, come scrisse in una sua poesia, che tutto muove, tutto solleva e tutto fa conoscere».

Nell’umanità ‘diversa’ e isolata di “Mismas” e nelle sue storie, più efficaci di qualsiasi medicina, Giancarlo e Rosa troveranno la loro salvezza: come dice Boris, uno dei tanti personaggi che si passano il testimone del racconto, «Le storie sono come le radici senza le quali un uomo cade», servono ad allontanare e vincere la morte, proprio come nelle Mille e una notte. Carla ha infatti bisogno, oltre che dell’aiuto di un medico, «anche di trame e parole, di suoni e significati che la facciano rimanere tra noi e non la sviino verso qualcos’altro, a cui non voglio nemmeno pensare», anche se la speranza è sempre a doppio taglio, perché «se fa bene da un lato, alimentando un futuro più quieto, fa male dall’altro, essendo ciò improbabile».

Redivo anche in questo caso è consapevole delle potenzialità e, nello stesso tempo, dei limiti della letteratura, si colloca su un crinale precario, come precario è il filo che lega Carla alla vita, entra in una sorta di inframondo, quello in cui sono sospesi anche i vari personaggi, Benedikt, il Vecchio, la Donna, la Gigantessa, l’Umorista, la Coppia, figure simboliche che si succedono e alimentano la narrazione: ancora una volta, come nei romanzi di Moresco, l’enunciazione si basa sulla moltiplicazione; abbiamo la sensazione di tante storie e tanti livelli che si alternano e si confondono, di un racconto che si potrebbe riprodurre e dilatare all’infinito e che vuole esplorare tutte le potenzialità della prosa, superando le barriere tra reale e irreale. Ancora una volta, Redivo mette in scena il “gioco” serissimo della letteratura, che, per quanto sia artificiale, è un modo di reagire alla morte, un’affermazione della vita, una sfida tenace nei confronti di tutti quelli che credono che la funzione della letteratura si sia esaurita: è una sfida che rivendica la vitalità dei margini, degli “scarti”, dai quali soltanto può nascere una nuova speranza e un’alternativa per la sopravvivenza di tutta l’umanità, salvata dalla poesia.

 

 

Riccardo Redivo

Era un appassionato

di arcobaleni

Il seme bianco, 2018

  1. 107, euro 11,90

 

 

Riccardo Redivo

Mismas

Umanità sotto assedio

Sensibili alle Foglie, 2020

  1. 80, euro 12,00