RACCONTI (SCIATTI) DI MAURO COVACICH

| | |

di Gianfranco Franchi

 

Penalizzato da una quarta di copertina che più sbagliata non si può (forse voleva essere, nelle intenzioni editoriali o autoriali, addirittura poetica, ma la laconica battuta “espello tutto per restare leggero” più che elegiaca pare lassativa: manca solo il vecchio omino stilizzato dell’Amaro Giuliani a suggellarne il liberatorio impatto), l’ultimo Covacich, La sposa, pubblicato da Bompiani nell’autunno del ’14, è una raccolta di racconti ondivaga e bolsa, erede di due antiche strade battute dal primo Covacich: quella a cronico rischio del kitsch, e del morboso, e quella a cronico rischio del rasoterra provinciale, e della deriva ombelicale. Erano le strade battute, a distanza di pochi anni, da due diverse pubblicazioni dello scrittore triestino: una ricordata da Covacich nella sua Nota, in appendice, l’altra curiosamente omessa. Anomalie (Mondadori, 1998) costituisce col successivo La poetica dell’Unabomber (Theoria, 1999) lo stampo di questa ripetitiva e debole nuova raccolta di racconti e sketch, a metà strada tra un frammentario diario di malinconie e solitudini di un uomo di mezza età, uno sconcertante e stantio ritorno su fattacci di cronaca nera che non si può non considerare esausti (uno su tutti, il delitto di Cogne), una claudicante e facilona rappresentazione della vita delle periferie romane e una più equilibrata e provocatoria lettura delle dinamiche della provincia di Pordenone, chiaramente diversamente frequentata. Niente di nuovo, insomma, e niente di fondamentale: peccato soprattutto considerando che c’è un Covacich capace di ben diversa intelligenza e diversa profondità, nella restituzione dello spirito di una città, di un’epoca e di una cittadinanza; è il caso del Covacich del riuscito e ispirato Trieste sottosopra, pubblicato da Laterza nel 2006 e tuttora facilmente reperibile. E c’è un Covacich romanziere capace di originalità e di ben diverso respiro, come nell’apprezzato A perdifiato (Mondadori, 2003), libro di atletica leggera e di buoni sentimenti; a dirla tutta, con piena franchezza, c’è un Covacich giovane capace di trattare gli stessi argomenti di questo libro, direi con meno depressione e meno stanchezza, e destinato a restare quantomeno per ragioni documentaristiche: quello della Poetica dell’Unabomber, che raccoglieva pezzi commissionati dal Corriere, da Panorama o da Diario, quando Covacich viaggiava per l’Italia “per raccontare cosa succede senza inventare niente”.

Stavolta qualcosa inventa, invece, ma il risultato è molto mediocre, leziosetto, didascalico o prevedibile, come nel caso del racconto eponimo. Forse era meglio restare sulle posizioni giovanili, almeno da questo punto di vista.

Stilisticamente, Covacich non è mai stato riconosciuto come un artista elegante, ricercato o particolarmente sperimentale; è uno scrittore dalla lingua piana, è uno scrittore pop che ogni tanto scade in quello che Pacchiano, tanti anni fa, chiamava “grigiore diffuso”: succede quando la lingua sfocia in un parlato spiccio, si fa sciatta e fiacca. In questo senso, La sposa non sposta di una virgola il giudizio sulla scrittura di Covacich.

C’è da registrare qualche dichiarazione politica di discreto interesse, in compenso. L’artista riferisce che politicamente intendeva restare “cane sciolto”, tuttavia “contestavo in modo direi abbastanza protocollare il Partito Comunista ma, al tempo stesso, ero ancora fortemente sensibile all’afflato internazionalista”; giura di aver sempre evitato ogni “retorica tardo-risorgimentale” (festeggiò i Mondiali del 1982 “rigorosamente senza tricolore”) e di aver tanto voluto essere definito uno scrittore europeo, uno che usava la sua lingua come fosse una lingua straniera: ecco, in questo è sempre pienamente riuscito.