Raffaello, ultimo atto

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di Nadia Danelon

“Gli misero alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de’ Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ogni uno quivi guardava”: sono parole di Giorgio Vasari, inserite dal grande storiografo nella lunga biografia di Raffaello d’Urbino, che fa parte della sua celebre raccolta Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani (Firenze, 1550 e 1568). La Trasfigurazione di Raffaello non ha certo bisogno di presentazioni: si tratta di uno dei più celebri capolavori della storia dell’arte, frutto del talento di uno dei maggiori pittori del Rinascimento.

Il 6 aprile 1520 Raffaello muore a Roma, stroncato da una grave malattia: è ancora giovane, ma la sua fama può essere considerata assoluta. Pittore dei papi, impegnato dal 1508 nella decorazione delle sue celebri Stanze vaticane, l’ultima delle quali (detta di Costantino) viene completata dai collaboratori dopo il suo decesso. Noto anche per altri capolavori realizzati nel contesto romano: basti solo pensare alla decorazione della Loggia di Psiche presso Villa Farnesina, celebre residenza del banchiere Agostino Chigi. Una notorietà già consolidata, arricchita senza alcun dubbio dalle curiose circostanze temporali legate alla sua morte: Raffaello passa a miglior vita il giorno di venerdì santo del 1520, creando la convinzione che non potesse essere “solo una coincidenza” (Oberhuber) e che Pandolfo Pico della Mirandola descrive con espressioni profetiche nel contesto di una lettera inviata a Isabella d’Este “[Raffaello è morto] la notte passata che fu quella del Venerdì santo, lasciando questa corte in grandissima e universale mestitia. Di questa morte li cieli hanno voluto mostrare uno de’signi […]” (17 aprile 1520). La critica non concorda sul fatto che la Trasfigurazione possa essere stata completata prima della morte del pittore: sono state rilevate alcune incongruenze, soprattutto relative al registro inferiore, giustificate o condannate nel corso del tempo. Risulta interessante anche l’aspetto documentario relativo alla questione, legato a delle preziose testimonianze d’archivio: De Vecchi, persuaso del fatto che l’opera sia stata completata dagli allievi entro due anni dalla morte del pittore, segnala ad esempio una richiesta di pagamento rivolta il 7 maggio 1522 dal Castiglione al committente della Trasfigurazione (cardinale Giulio de’ Medici, in seguito papa Clemente VII) ed espressa in favore di Giulio Romano: “Giulio allievo di R. da Urbino per la tavola che il prefato R. fece a V.S.R.ma e ill.ma resta creditore di una certa somma di denari”. Tuttavia, come ricordato dallo stesso studioso, non è chiara la motivazione per cui l’allievo di Raffaello risulta il destinatario di quella somma di denaro: Giulio Romano potrebbe figurare in quello e altri documenti in qualità di erede di Raffaello. Fatto sta che proprio la Trasfigurazione, dopo il decesso di colui che “di sua mano, continuamente lavorando, [la] ridusse ad ultima perfezzione” (sempre Vasari), acquista una fama straordinaria nel suo ruolo di ultimo capolavoro dell’Urbinate: tanto da far prendere la decisione al committente di non collocarla nel luogo a cui è originariamente destinata (la cattedrale di Narbona, sede vescovile amministrata dallo stesso Giulio de’ Medici), ma di sistemarla nel 1523 presso la chiesa romana di San Pietro in Montorio. La Resurrezione di Lazzaro di Sebastiano del Piombo, commissionata in coppia con la Trasfigurazione, viene effettivamente collocata nella cattedrale francese. Il confronto, volutamente incoraggiato dal committente, è ormai passato in secondo piano quando il 12 aprile 1520 (quindi, sei giorni dopo la morte di Raffaello) Sebastiano del Piombo scrive allo stesso Michelangelo: “Credo avete saputo come quel povero R. d’Urbino è morto… Et avisovi come ozi io ho portato la mia tavola un’altra volta a Palazo con quella che ha fatto Raffaello et non ho avuto vergogna”. Dal punto di vista compositivo e iconografico, la Trasfigurazione viene contraddistinta da una evidente incongruenza: la scelta è quella di legare due episodi, consecutivi l’uno all’altro dal punto di vista evangelico, ma comunque separati e distinti. In alto, osserviamo la Trasfigurazione vera e propria dove Cristo è rappresentato mentre si libra tra i profeti Mosè ed Elia e gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni intimoriti e caduti a terra (Matteo XVII, 1-9). Ai piedi del monte Tabor, i discepoli tentano invano di guarire un fanciullo indemoniato: sotto espressa richiesta del padre del ragazzo “Signore, abbi pietà di mio figlio […] L’ho portato ai tuoi discepoli, ma non hanno potuto curarlo”, Cristo riesce nell’impresa e fa notare ai suoi come il fallimento sia dovuto ad una debolezza di Fede (Matteo XVII, 14-21). Come sottolineato dalla critica, non è la scena della guarigione ad essere rappresentata, ma il momento che la precede: questo permette una straordinaria contrapposizione tra i due gruppi di figure, i discepoli da un lato e la famiglia del ragazzo dall’altro. Per l’interpretazione di questa scena, per giustificarne l’inserimento, potrebbe essere interessante ricordare l’ipotesi formulata da Pagden-Zancan: la rappresentazione della guarigione (il risultato dovuto all’intervento divino) strizzerebbe l’occhio al cardinale “Medicus” divenuto in seguito papa. Forse, partendo dal medesimo presupposto, sarebbe stata concepita anche la scelta di commissionare una “Resurrezione di Lazzaro” a Sebastiano del Piombo. Un altro particolare rivelante, sottilmente legato alla destinazione originale dell’opera, si può osservare nell’angolo in alto a sinistra della tavola: i santi martiri Giusto e Pastore, dedicatari della cattedrale di Narbona, osservano la scena adoranti e quasi in uno stato di estasi. Inoltre, la loro ricorrenza cade esattamente il 6 agosto: una fortunata coincidenza, dato che nel medesimo giorno il calendario liturgico colloca anche la Trasfigurazione. L’ultima opera di Raffaello, che dal 1815 fa parte delle collezioni vaticane (dopo essere stata portata in Francia nel 1797), costituisce anche il suo testamento. L’ultimo capolavoro di un talento geniale, che con la sua spettacolare drammaticità riesce a proiettare la sua influenza nell’arte pittorica del XVI e del XVII secolo.