8 MARZO Ragazze che non amano i bambini?

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Alcune riflessioni sui problemi che concorrono alla crisi demografica, in particolare in Italia

di Giulia Del Grande

 

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Abitando all’estero, nel nord Europa, dove vedo frequentemente passeggiare giovani donne, uomini, coppie con un figlio per mano, uno nel passeggino e un terzo, meno evidente, nascosto sotto i vestiti, la maternità appare ai miei occhi una tappa naturale. A voi chiedo, in Italia, nell’ultimo decennio, quante volte vi è capitato di incontrare coppie con un solo bambino e di chiedervi guardando la madre: «Quanti anni avrà?».

Secondo i dati ISTAT dal 2008 al 2018 in Italia sono state registrate quasi 140 mila nascite in meno, con un numero medio di figli per donna che, anche nel 2019 (dati aggiornati al primo gennaio 2020), rimane costante all’ 1,29. Questo dato però, seppur allarmante, non è il peggiore degli ultimi trent’anni. Nel 1995, infatti, la fecondità per donna aveva raggiunto il minimo storico di 1,19, per poi aumentare anche grazie all’afflusso di immigrati. Adesso però, a risollevare i dati demografici del Paese, non saranno più gli stranieri in quanto già nel 2019, prima della pandemia, si era osservato un calo del rilascio dei permessi di soggiorno del 26,8% rispetto all’anno precedente; le ragioni sono generalmente imputabili alla crisi economica, quindi alla decrescente attrattività dell’Italia, ai draconiani decreti sicurezza di Salvini (in vigore dal settembre 2018 al dicembre 2020) e alla persistente assenza di un piano regolatore per l’inserimento lavorativo, di integrazione linguistica e sociale degli stessi. Ma questa è un’altra storia.

Peraltro italiane e italiani, che se volessero avrebbero tutte le carte in regola per restare nel nostro paese, continuano ad essere attirate/i dai paesi esteri, dato mostrato sempre dall’ISTAT che registra nel 2019 un aumento, rispetto all’anno precedente, del +8,1% dell’emigrazione italiana. Insomma l’Italia si sta spopolando.

In Italia non si fanno più figli?

Per iniziare, come precedentemente mostrato, è sbagliato dire che in Italia non nascono più bambini, se ne fanno di meno senza dubbio e in età più avanzata; l’età media del primo figlio è infatti 31,2 anni, rispetto a una media europea di 29,1.

In tutto ciò il dibattito italiano sul calo delle nascite è di infimo livello e risolve sbrigativamente la problematica ricordando il poco tempo che ormai le donne dedicano alla famiglia e legando quindi il fenomeno alle conseguenze dell’emancipazione femminile su scala mondiale. Sfortunatamente, però, le parole non rincuoranti degli esperti, che ricordano l’assenza di un’intera generazione all’appello, non lasciano più spazio a generalizzazioni.

Da trentenne quale sono, guardando alle mie coetanee, mi sento di poter disegnare un quadro abbastanza chiaro delle ragioni che possono indurre a posticipare la nascita del primo figlio: un lavoro precario, quindi un’instabile situazione economica, l’attesa di un salto di carriera, il dubbio di vivere in una relazione stabile con il proprio partner e le incertezze relative al futuro, fra cui epidemie, calamità naturali conseguenti al surriscaldamento globale, inquinamento e cicliche crisi finanziarie. L’ordine di priorità di tali motivazioni è del tutto personale e cambia anche a seconda dei desideri e delle priorità del partner (a meno che non si viva in società come quella svedese in cui la paternità o maternità sono facilmente realizzabili da un unico individuo).

Insomma, siamo sinceri, a meno che la donna non faccia i figli prima dei trentacinque anni dedicandocisi corpo e anima, la malcapitata va incontro ad una marea di calunnie alle quali è difficile sottrarsi. Relativamente all’età è la scienza che lo consiglia e, diciamocelo, è sempre più piacevole vedere una giovane mamma rispetto a una primipara attempata. Ma, attenzione, se si fanno bambini alla “giusta” età  ̶  a voi di giudicare quale essa sia su una scala che va dai 20 ai 35 anni  ̶  ma senza rinunciare al proprio lavoro, hobby, amicizie e via dicendo, non va bene comunque. Quante volte ho infatti sentito dire: “A cosa serve mettere al mondo un figlio per poi farlo crescere dalla tata o dai nonni?”

Guardando poi alle generazioni precedenti alla nostra, sebbene molte donne abbiano volontariamente cercato ed accettato la maternità in giovane età, senza mettere da parte se stesse e certe del sostegno economico ed emotivo del proprio partner, altre hanno avuto un’esperienza diversa. Sto pensando a quelle donne che hanno collezionato una serie di rinunce personali e discriminazioni lavorative, cui hanno seguito frustrazioni e danni psicologici; le loro figlie hanno una responsabilità nei loro confronti: trarre insegnamento dalla loro esperienza e far sì che ciò non si ripeta.

Nei dibattiti politici televisivi è raro, però, sentirne parlare in questi termini, in primo luogo perché la tematica non è abbastanza elettrizzante, in secondo luogo perché, chi viene chiamato a dare il proprio parere sulla situazione femminile in Italia, sono uomini fra i cinquanta e i sessant’anni, gli stessi in gran parte responsabili di tale fenomeno. Se infatti andiamo a guardare a quelle nazioni dove la natalità e il benessere della vita (HDI: Human Development Index) sono alti (come i paesi scandinavi) ci si accorgerà, navigando nella storia, che sono state proprio le donne, scese in politica ed entrate nei parlamenti nazionali, a convincere della necessità di riforme che hanno facilitato, decolpevolizzato e anzi valorizzato, la figura femminile in quanto lavoratrice e procreatrice, tale non per scelta ma per necessità e natura. Insomma, che ci piaccia o no, se si vogliono fare figli sono le donne a dover essere interrogate, coinvolte ed agevolate in questo percorso.

Un punto di partenza potrebbe essere ragionevolmente la parità di stipendio. Secondo il Global Gender Gap Report 2020, l’Italia è al 76° posto nella lista dei paesi che attuano la parità salariale e ciò non è riconducibile al salario iniziale ma a tutte quelle discriminazioni occulte legate principalmente alla necessaria flessibilità lavorativa che richiede il ruolo di madre e quindi alle rinunce salariali, orarie e di carriera alle quali sono obbligate a sottostare per non perdere l’impiego. In altre parole la produttività femminile non viene, in larga scala, riconosciuta al pari di quella maschile e perciò è meno retribuita.

Un secondo aspetto da non sottovalutare è il problema degli asili nido (0-3 anni). La fondazione Openpolis, nel marzo 2020, ha rilanciato la mancanza di posti soprattutto nel sud Italia che vede Sicilia e Campania con una capacità di accoglienza inferiore al 10%. Non sapendo a chi lasciare i propri figli, molte donne si trovano quindi costrette a rimanere a casa, dimettendosi a fine gravidanza o rinunciando ad un lavoro a tempo pieno. Situazione completamente opposta si osserva, però, al nord e centro Italia dove la Valle d’Aosta si attesta la regione più virtuosa (47% di posti), a seguire Umbria ed Emilia Romagna. Quest’ultime sono, non a caso, le regioni in cui l’occupazione femminile è più alta, i dati del Mezzogiorno, invece, sono piuttosto sconfortanti: meno del 50% delle donne nel mercato del lavoro (in Sicilia solo il 31.5%, contro il 68,8% della Valle d’Aosta – dati Openpolis 2018).

La donna italiana si scopre vittima, quindi, di un sistema assistenziale avverso e responsabile, spesso, nel dover accontentare le aspettative dei familiari cui si sommano quelli del partner che, dipendente dalle attenzioni della madre (fenomeno ufficialmente riconosciuto in Italia con il termine di “mammismo”) si attende non solo di essere accudito dalla sua donna ma anche di ricevere un sicuro appagamento sessuale…

Il risultato è sotto gli occhi di molte donne che trovano difficoltà a portare avanti relazioni durature perché i loro uomini non riescono ad accettare di avere accanto una donna che pensa alla propria realizzazione personale, soprattutto, se ha un maggiore potere economico nella coppia. Ma gli uomini, fortunatamente, non sono tutti maschilisti e mammoni, quindi, in altrettante coppie di giovani, il problema centrale è la questione economica all’ordine del giorno prima di fare un figlio: un lavoro precario e una piccola casa in affitto è, infatti, una sfida che in pochi riescono e vogliono sostenere. Dopotutto si sa: «prima ti sistemi» ovvero trovi casa e un lavoro sicuro «poi metti al mondo dei figli». «E quando accadrà ciò?» è questa la domanda che molte coppie si pongono e che, inevitabilmente, li porta ad avere figli tardi, aumentando quindi i rischi nella procreazione e le conseguenze sul numero complessivo dei bambini che nasceranno.

Insomma, avere le ovaie non è cosa semplice; quindi se a trent’anni una donna, seppur felicemente in coppia, non ne vuole sentire di avere figli, non la trattate come un’immatura, non la etichettate negativamente come una che “si vuole godere la vita”, come un’eterna ragazza che non ama i bambini. E infine, non le date la responsabilità di dover sollevare l’invecchiamento demografico del paese. Piuttosto lasciatela libera di scegliere e cercate di sollevarla psicologicamente da questo fantastico dono che le ha dato la natura: la maternità, una grande possibilità che non deve nascere da pressioni sociali di sorta e che ha tutto il diritto di prendere forma, se vuole prendere forma, in un sistema socio-economico ed assistenziale che non la ponga di fronte al rischio di dover rinunciare a se stessa.

 

 

 

Giulia Del Grande, toscana di origini, dopo una lunga permanenza in Francia, dal 2018 risiede stabilmente a Copenaghen. Dopo aver ottenuto la laurea in Relazioni Internazionali ha specializzato la sua formazione nelle relazioni culturali fra Italia e Francia in epoca moderna e contemporanea lavorando a Bordeaux come lettrice e presso varie associazioni e istituti del settore, svolgendo, in ultimo, un dottorato in co-tutela con l’Università per Stranieri di Perugia e quella di Toulouse 2 Jean Jaurès. Collabora con Altritaliani dal 2016.