Richard Avedon: fotografo la superficie

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Una grande retrospettiva al Palazzo Reale di Milano

di Michele De Luca

 

Di lui disse in una intervista sul “New Yorker” Alexey Brodovitch, art director di Harper’s Bazaar nonché originale ideatore grafico di Observations (1959), il primo libro fotografico di Richard Avedon (New York 1923 – San Antonio, Texas, 2004), edito da Simon and Schuster, con testi di Truman Capote: «Egli ha la straordinaria capacità di scovare gli attributi più insoliti e sorprendenti di tutti i soggetti che fotografa. Quelle sue prime fotografie erano fresche e personali, e mostravano entusiasmo e una speciale capacità nel cogliere le occasioni». Era una “consacrazione” che gli veniva da chi era stato anche suo insegnante alla New School for Social Research, dopo che il fotografo aveva incominciato ad approfondire il suo rapporto con la fotografia durante il servizio militare nella Marina, tra il 1942 e il 1944, quando gli venne assegnato il compito di realizzare i ritratti per i documenti di identità dei commilitoni: immagini semplici e dirette, che però già prefiguravano alcuni tratti caratteristici della sua produzione successiva, in cui la celebrazione della giovinezza si mescola con l’incertezza del futuro e il presagio della morte.

L’incontro con Brodovitch fu fondamentale per il fotografo che, come lo stesso ha raccontato, lo fece entrare in un mondo di cui ignorava l’esistenza; dalla rivista da lui diretta, partì la sua inarrestabile carriera, diventandone il fotografo di riferimento (vi restò dodici anni). Il suo studio, in Madison Avenue, diventò affollato punto di ritrovo per le celebrità di tutto il mondo che attendeva di posare per copertine e foto pubblicitarie: solo per citarne alcuni, dai Beatles a Michelangelo Antonioni, da Allen Ginsberg a Sofia Loren, dal Dalai Lama a Marylin Monroe, di cui ricordava:  «Marilyn Monroe alla macchina fotografica offriva più di qualsiasi altra attrice, o donna, che io abbia mai inquadrato: era infinitamente più paziente, più esigente con se stessa r più a suo agio di fronte all’obiettivo che non quando ne era lontana».

Nel 1957 venne addirittura celebrato a Hollywood nel film musicale

Funny Face con Fred Astaire. Una grande mostra al Palazzo Reale di Milano (“Richard Avedon: Relationships”) ne ripercorre gli oltre sessant’anni di carriera attraverso un centinaio di immagini, sottolineando la forza della rappresentazione creativa, a volte scioccante, che faceva dei suoi modelli, tesa a coglierne la complessità emotiva. I soggetti dei suoi ritratti, cioè, non sono più costretti ad una serie di rappresentazioni, per così dire standardizzate (come nelle foto di moda), ma si lasciano andare ad espressioni più naturali, a volte “auto-dissacratorie”, con smorfie, risate, atteggiamenti provocatori. Ha detto: «Le mie fotografie non vogliono andare al di là della superficie, sono piuttosto letture di ciò che sta sopra. Ho una grande fede nella superficie che, quando è interessante, comporta in sé infinite tracce».

Fin dalla metà degli anni ‘40, infatti, si distinse con un immaginario così peculiare e innovativo da sfidare i canoni della bellezza convenzionale, rifiutando la staticità, l’immobilismo, il rigore delle forme, ritraeva i suoi soggetti in movimento perché apparissero curiosi, ribelli, esuberanti, spavaldi. E portò una rivoluzione anche nella location, che da sfondi asettici passò a ad ambienti pulsanti di vita vissuta. La mostra rende omaggio ad una vita per la fotografia; quella di Avedon, che era solito dire:   «Se passa giorno in cui non ho fatto qualcosa legato alla fotografia, è come se avessi trascurato qualcosa di essenziale. è come se mi fossi dimenticato di svegliarmi».

Richard Avedon

Ritratto di Elizabeth Taylor

© Richard Avedon