Vinabolario. Incontro con Adriano Bellini

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Cosima Grisancich

 

La mattina dell’antivigilia di Natale, squilla il telefono e la voce calma di Adriano Bellini, figura di riferimento nell’ambito della cultura enologica regionale, mi dice che spera di incontrarmi presto per darmi il suo libro e offrirmi un bicchiere: in un istante mi torna in mente come fosse uscito Vinabolario e mi fossi dimenticata di andare alla presentazione. Molto elegantemente il sommelier Bellini sorvola su quella mia assenza e mi offre l’occasione di recensire il volume.

Un paio di settimane dopo, nonostante la bora a 140 chilometri all’ora, ci troviamo in un bar, ma date le basse temperature una cioccolata calda è la bevanda ideale per la nostra chiacchierata.

L’intervista qui di seguito è molto informale perché con Adriano ci conosciamo da un po’, ma anche perché tra sommelier ci si dà del “tu”.

Vinabolario, titolo originale che anticipa l’identità del tuo libro, lo potremmo definire un dizionario del vino?

Il termine dizionario implica qualcosa di troppo tecnico, mentre Vinabolario è il titolo giusto per alleggerire un po’ l’argomento; per certi vocaboli ho dovuto usare un linguaggio codificato, per altri parole più semplici e comprensibili.

Mi sembra originale l’idea di partire dalla Z per poi finire con la lettera A.

Perché non distinguersi dagli altri? Mi è venuta l’idea, anche perché ci sono già molti glossari sul vino e io ho voluto renderlo un po’ più… “belliniano”.

Ho notato che il libro è impreziosito da un serie di importanti citazioni.

Sei la prima che me lo fa notare; negli ultimi anni sui social media si dicono le solite frasi famose sul vino, così sono andato alla ricerca di frasi particolari d’autore come quelle di Saba e Joyce.

Per certe definizioni hai dato una tua impressione personale, mi è piaciuta molto la spiegazione del termine “pietra focaia”:

Sì certo, in questo modo ho cercato di rendere il libro più comprensibile possibile, ma soprattutto più scorrevole, anche perché così le persone non si annoiano, ma anzi leggono più volentieri.

Quando è cominciata la tua passione per il vino?

Avevo sedici anni e mi ero imbarcato sulle navi da crociera; ero un giovane barman, ma nelle ore del pranzo andavo a servire nella sala ristorante ed ascoltare il caposala, allora l’addetto ai vini. Sono stato un amante della birra , mentre più tardi, dopo aver aperto l’EnoBar, mia moglie amante del vino, mi ha convinto nel lontano 1976 a frequentare il corso di sommelier.

Perché non optare per un’autobiografia?

Ho passato i quindici lustri: difficile racchiuderli tutti in un libro, per la mia storia basterebbe pubblicare il mio curriculum (due pagine intere di notizie, ndr.)

Com’è cambiato negli anni il tuo rapporto con il vino?

Sono partito con un atteggiamento di curiosità, che poi si è evoluto in interesse e alla fine si è trasformato in amore.

Sei nell’ambiente da 40 anni, com’è cambiato l’approccio al vino da parte dei giovani?

Quelli che oggi frequentano i corsi sul vino non sono interessati a bere (azione fine a se stessa), ma a sapere cosa bevono: la qualità del bere può essere un freno all’alcolismo. Negli ultimi anni è evidente la presenza di un’ampia offerta di vini specialmente nei vari locali triestini (bar e caffè); sfortunatamente spesso si nota una mancanza di professionalità nell’offerta: il cliente vuole maggiori informazioni su quello che ha ordinato ma il barman non è in grado di dargliele.

Un’ultima domanda: qual è il tuo vino preferito? O la categoria di vini che ami particolarmente?

Questa domanda, quando sei sommelier, te la faranno sempre; sappi che non ha una risposta precisa, ma puoi fare come me, io rispondo semplicemente: ”Dipende da quello che devo mangiare!”. Se invece intendi una categoria di vini io preferisco i vitigni varietali come il sauvignon e il gewurztraminer che mi danno una sensazione aggiuntiva al naso.

Prosit!