RICORDANDO UN GIOVANOTTO MATTO

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Lelio Luttazzi, un signore nel mondo dello spettacolo

Anna Calonico

Musicista, cantante, direttore d’orchestra, showman, conduttore televisivo, attore, regista, scrittore… Una sola vita, una sola persona: il nome di Lelio Luttazzi è legato all’ambito musicale e televisivo, solo per citare i due in cui è stato più presente, in una molteplicità di ruoli, tanto che quando gli chiesero quale fosse, in sostanza, il suo mestiere rispose quello che gli dettava il cuore: Vorreste sapere, insomma, se io mi sento cantante, direttore d’orchestra, compositore, attore, o qualcos’altro ancora? Mi sento musicista. Musicista di jazz.”

Personaggio complesso, pur nella sua semplicità: nato a Trieste nel 1923, orfano di padre molto presto, viene cresciuto dalla madre, un’insegnante che lo tiene nella sua stessa classe, unico bambino di lingua italiana tra compagni della minoranza slovena. A Prosecco, dove appunto segue i suoi primi anni di scuola, impara a suonare il pianoforte dal parroco e quando, durante gli studi di Giurisprudenza, si trova per caso ad accompagnare Ernesto Bonino, allora cantante di successo, la sua storia inizia quell’ascesa straordinaria che lo farà entrare nelle case degli italiani e a raccogliere i loro consensi: Bonino si accorge delle sue doti e gli chiede di scrivergli una canzone. Nasce così Il giovanotto matto, che gli frutterà dalla SIAE ben 350.000 lire, una somma notevole per ì tempi, specie per un esordiente senza esperienza e quasi autodidatta.

La musica: il grande amore di Luttazzi, il suo trampolino di lancio per una storia ricca di successi che si può raccontare come un romanzo seguendo la sua carriera: Ieri sera mentre passeggiavo m’accadde un fatto, un giovanotto matto mi si accostò a un tratto. Mi invitò a sedere in un caffè molto fuor di mano e con accento strano cominciò a narrar

L’accento strano, abbiamo detto, è quello triestino, che a volte cambia gli accenti alle parole rispetto alla lingua italiana, anche se presto, nel 1948, Lelio se ne va a Milano per fondare la CGD con il concittadino Teddy Reno. Ed è in questo periodo che vengono diffuse canzoni come El can de Trieste, Ritorno a Trieste, Troppo tardi, Mia vecchia Broadway, Il favoloso Gershwin… e ancora Muleta mia cantata da Teddy Reno, Una zebra a pois cantata da Mina… fino a che Luttazzi si trova a dirigere l’orchestra della RAI reinventandola in orchestra d’archi ritmica. La sua musica era improvvisazione, ispirazione venuta dalla musica dei neri di New Orleans prima, dei musical americani poi: Della musica black mi piaceva tutto: ritmo, armonia ma soprattutto mi piaceva lo swing, a cui mi rifacevo e mi rifaccio ancora adesso dichiarò una volta. I suoi cantanti erano Gershwin, Jerome Kern, Cole Porter. Ma lui stesso era un nome a cui guardare per i suoi contemporanei e Mina, con la sua voce eccezionale, lavorava con lui e lo ammirava molto: “Si scherniva se gli si diceva che era bravo, che le sue canzoni erano formidabili, che aveva uno swing pazzesco, che aveva un garbo, una classe che in giro non c’erano. Né si sono mai più visti dopo.” Le sue canzoni parlavano di cose semplici, quotidiane, e s’era lamentato che un giorno sarebbe stato ricordato soprattutto per le cose più sciocche, per le canzoncine scritte in mezz’ora. Trieste mia, che nostalgia mi gò lontan de ti. Giravo el mondo de zima a fondo ma penso sempre a ti. Poder tornar a Miramar col vecio amor e dirte ancor te voio ben…te me vol ben?

Anche in TV il suo ruolo era legato alla musica: molte le trasmissioni da lui condotte: esordisce nel 1955 con Musica in vacanza, seguono Studio Uno, Doppia coppia, Ieri e oggi. Ma quella che più lo rappresenta, e che più gli ha procurato l’affetto degli spettatori, è Hit Parade, trasmessa dalla radio in diretta da Roma, tutti i venerdì per quasi dieci anni: e anche come personaggio dello spettacolo la sua carriera è confermata. Definito ironicamente “portatore sano di smoking”, nello schermo, così come nei programmi radiofonici, si caratterizza per l’umorismo e la spontaneità: Sono un pessimo spettatore del protagonismo altrui, scherzava, e infatti nei suoi programmi non c’è un altro personaggio a prevaricare. Sa essere malinconico ma spensierato, leggero senza essere banale. Nelle sue trasmissioni lavora con Mike Bongiorno, è affiancato da grandi nomi, Mina e le gemelle Kessler tra le donne, e i suoi ospiti sono prestigiosi, come Sordi, Mastroianni, Totò, de Sica… Forse questi incontri segnano un altro passo importante della sua vita: il rapporto con il cinema, che inizia con la composizione di sigle e colonne sonore: Totò, Peppino e la malafemmina, Totò lascia o raddoppia, Venezia, la luna e tu; ma ben presto vede anche la partecipazione di Lelio come comparsa, via via fino a qualche parte più lunga, poi la sua presenza alla regia, fino a un film tutto suo, L’illazione, del 1972.

In I complessi Luttazzi, nel ruolo di se stesso, incontra Sordi, che interpreta Guglielmo il dentone, preparatissimo annunciatore RAI, e che lo saluta come “maestro Luttazzi”. Tutta lì la sua interpretazione per quel film, e molto brevi sono anche i suoi interventi in L’ombrellone di Dino Risi e in L’avventura di Antonioni: grandi nomi, attori e registi di fama internazionale gli rendono omaggio chiedendo la sua presenza nel loro cast. Soltanto in Io, io, io e gli altri affianca attori quali Mastroianni, Manfredi, De Sica, la Lollobrigida, laMangano, Walter Chiari; in Oggi, domani e dopodomani Tognazzi, Virna Lisi, Catherine Spaak e ancora Mastroianni.

Luttazzi predilige un cinema popolare, festoso, e anche recitando in L’avventura, dove ha una parte leggermente più impegnativa rispetto agli altri lavori, si comporta come se si trattasse, appunto, di un’avventura, non di una cosa seria come lui considera, per esempio, il jazz. I film in cui collabora sono commedie ottimiste, parlano di amore e di amori, a volte grandi ma più spesso con l’iniziale minuscola, fatti di tresche e umorismo.

Sembra tutta una bella fiaba, la vita di Luttazzi, ma capita, naturalmente, un episodio drammatico che segna per sempre l’esistenza dell’uomo e del personaggio Luttazzi. Nel 1970 il successo e la fama gli sorridono, il suo è uno dei volti più conosciuti e più amati dalla gente comune, quella che corre a casa per scoprire i titoli della sua Hiiit Parade, come tutti la conoscevano: con quella “i” tirata lunga per incitare il pubblico, far crescere l’entusiasmo.

Ma una telefonata mette nei guai lui e l’amico Walter Chiari: per Luttazzi sono ventisette giorni di carcerazione preventiva per detenzione e spaccio di stupefacenti, un incubo che, anche quando finalmente terminò, lo fece sentire più solo, meno fiducioso, anche più debole degli altri, tanto che si allontanerà anche dal suo lavoro in Rai. Il caso si risolverà all’inizio dell’anno successivo con il suo proscioglimento, ma il fatto che si trattasse di un errore giudiziario non continuò a tenerlo lontano dal suo mondo, quello dello spettacolo. Tornerà a farsi vedere, ma in seguito, continuando nel periodo successivo a elaborare quanto gli era capitato con le accuse ingiuste che lo avevano sfregiato nell’immagine e nella sua personalità.

Assieme a lui era uscito dal carcere anche il suo diario di quei giorni, dei quaderni sui quali aveva messo in ordine i suoi sfoghi letterari i suoi pensieri più intimi, le sue paure, i suoi demoni, ma anche quei bagliori che vedeva in lontananza come luci di salvezza. Nelle pagine di quei quaderni esce tutto l’uomo Luttazzi, il più intimo, dalle abitudini quotidiane ai crucci più reconditi. Scopriamo che si tratta di un uomo ottimista, speranzoso, ma facile al pianto, anche se a farlo piangere non è il dolore, né la perdita di ogni speranza. Al contrario, saranno i gesti gentili, o semplicemente “umani” delle guardie del penitenziario a fargli venire gli occhi lucidi, come narra in questo passo: l’aguzzino, sempre senza guardarti in faccia, ti bisbiglia: “Mi creda, sono mortificato quanto voi, forse più di voi. Vorrei dirvi tante cose, ma se il maresciallo mi vede parlare, poi mi fa rapporto. Qui siamo all’Isolamento, voi mi capite, e non si scherza. Coraggio, Luttazzi, coraggio.” E quando se n’è andato, e quando rimani definitivamente solo e nessuno può vederti, allora ti metti a piangere, in silenzio, prima sommessamente e poi convulsamente. Ma non perché ti trovi dove ti trovi, non perché hai paura. È come un pianto di ringraziamento, il tuo. Perché dal magma orripilante dei Fatti è emerso ancora una volta l’Uomo. Ancora una volta l’Uomo è riuscito a ridarti la Speranza. (p. 29) Incredibile come nei momenti più neri della vita l’essere umano sappia tirar fuori dal profondo il suo meglio: le parole del libro di Luttazzi parlano di un incubo ma portano speranza: Qui dentro, dove operano dei semianalfabeti avvezzi all’umiltà e al sacrificio, continuo ad incontrarmi con l’Uomo (p. 81) : curioso anche che Luttazzi voglia usare l’iniziale maiuscola, come per indicare che nel posto peggiore ha trovato l’essere migliore. Certo, il libro che ne è uscito non è quanto di meglio si possa leggere, non sarà mai un bestseller, ma è interessante conoscere pagina dopo pagina le riflessioni di qualcuno che, mentre scrive, non ha più niente se non carta e penna. È una lettura che ci aiuta a capire le riflessioni sul sistema carcerario di chi vi si è trovato invischiato e che, ben sapendo di trovarsi lì soltanto per errore, fa cadere tutte le barriere che normalmente innalzano i nostri pregiudizi e si sente in dovere di giustificare o almeno sospendere il giudizio sui suoi compagni di prigionia. Niente fronzoli, in questo libro, perché l’autore, sopraffatto da lacrime e dolore, si mette a nudo, si espone alla verità proprio mentre la sta bramando. A volte parla duramente e sembra dimenticare quel barlume di speranza che gli viene dalle guardie e dalle lettere dei suoi cari, ma quella crudezza, quella malinconia, quel cinismo sono solo episodi passeggeri e alla fine, come al termine del suo diario, hanno la meglio la forza interiore, la pazienza, qualche risata e qualche proposito, così che il musicista sente sempre che Dio non è morto, Dio non è morto, Dio non è morto. (p.233). Quelle pagine scritte febbrilmente a Regina Coeli diventeranno un volume pubblicato da Mursia nel 1970, Operazione Montecristo, cui il regista Nanni Loi s’ispirerà per realizzare un film di denuncia, Detenuto in attesa di giudizio, protagonista un indimenticabile Alberto Sordi.

Lo stesso Luttazzi, uscito dal carcere, si cimenterà con la realizzazione di un suo film.

Nasce così, da un’esperienza di prigionia e ingiustizia, L’illazione, la storia di una giuria. Il film viene girato nel 1972 e tra i protagonisti c’è lo stesso Luttazzi nei panni di Decio Martinoli che, con altri amici, si ritrova alla periferia di Roma per un fine settimana di vino, chiacchiere e jazz. Gli altri personaggi maschili sono un giudice e un medico, che verrà sottoposto a un finto processo per eutanasia. Naturalmente, la giuria porterà a galla le colpe non soltanto del medico. L’illazione (eloquente il titolo: si parla di insinuazione, non di certezza ) è un gioco di flashback, e il processo imbandito dal giudice Calò rievoca con ansia i sentimenti sofferti di prigionieri, colpevoli o presunti tali. Si tratta di un processo farsa, ma ne risulta una crudele rivisitazione dell’esperienza vissuta dall’Autore, che sosterrà in seguito di non essere più riuscito a guardare il suo film perché gli riapriva troppo dolorose ferite.

Lontano dal grigiore e dal pessimismo di Operazione Montecristo è invece l’altro lavoro letterario di Luttazzi: L’erotismo di Oberdan Baciro, rimasto nel cassetto per trent’anni prima di essere dato alle stampe. Pubblicato postumo, è un romanzo di formazione, autobiografico (ma non fino alla fine!) e irriverente. Dolcemente ironico, sprezzante del falso buonismo che non ammette si parli di erotismo in età infantile e adolescenziale, il testo racconta con scanzonata leggerezza le grandi delusioni e i grandi sogni di un bambino sentimentale e immoralmente curioso. Dissacrante, libertino, sfortunato, vergine. Ogni volta che il prima giovanissimo, poi adolescente Oberdan si avvicina al suo sogno erotico – e pressoché tutte le bambine e ragazze che lo avvicinano lo sono – la commedia romantica sfocia in tragedia e il protagonista si ritrova frustrato e disilluso, magari anche terrorizzato da una punizione divina o, più banalmente, da un castigo della madre vedova, irredentista, patriota, fascista e rompicoglioni, e anche terribilmente, esageratamente devota, un personaggio inquietante quanto paradossale.

Completamente diversa dall’altra opera, viene pubblicato da Einaudi per iniziativa della moglie Rossana che trova il manoscritto sistemando il materiale sul marito per la Fondazione Luttazzi, nata nel 2010 con lo scopo di “sostenere, realizzare e promuovere azioni e progetti rivolti alla diffusione della cultura, dell’educazione e della formazione musicale” con particolare riguardo ai giovani che intendono perfezionarsi nelle attività musicali. La Fondazione, naturalmente, si occupa anche di promuovere eventi che ricordino il Maestro, come la mostra Lelio Swing tenutasi a Trieste (ma anche a Roma) nella primavera del 2014, o il concerto del 2012 cui ha partecipato anche Stefano Bollani.

Un’ulteriore occasione d’incontro, permanente, con la storia e la personalità dello scomparso è il nuovo “Studio Luttazzi”, inaugurato nell’aprile scorso alla Biblioteca Statale “Stelio Crise” di Trieste. In quell’occasione, la moglie aveva dichiarato “Qui in Biblioteca gli oggetti non devono essere solo conservati, ma devono servire anche per suscitare un dibattito, per dare il via a incontri, a conferenze, devono essere il pretesto per occuparsi di varie tematiche, a scopo culturale e didattico” e l’esposizione, che spazia dalle copertine dei dischi alle locandine dei film, da un perfetto smoking a pagine ingiallite scritte a mano, da registrazioni a citazioni scritte sui muri, suscita senz’altro la curiosità dei visitatori. L’ammirazione di chi per tanto tempo l’ha visto in televisione si può mescolare con lo stupore di chi invece non lo ricorda sul piccolo schermo, di chi ha vissuto gli anni del suo oblio, ma ugualmente si sente affascinato dal personaggio.

Luttazzi, infatti, ancora deluso e ferito dall’episodio del carcere, lascia il mondo dello spettacolo e ci torna soltanto molti anni dopo, ospite illustre di Fiorello, Pippo Baudo, Fabio Fazio, di Sanremo con la cantante Arisa, che lui accompagna al pianoforte. Tornato a Trieste dopo un’assenza di oltre cinquant’anni, stabilitosi in un appartamento di piazza Unità, si spegne nel 2010.

A ricordarlo rimane anche un sito zeppo di notizie, ma soprattutto restano le sue musiche, e restano parole che ci parlano di lui, come in Ritorno a Trieste: sarà che più che se diventa veci, sarà che più che se diventa veci, più se gà voia de pianzer come i fioi, più se gà voia de pianzer come i fioi.imagesoberdan bacirooperazione-montecristo