Ricordo di Alberto Arbasino

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Considerazioni di un lettore di provincia

di Francesco Carbone

 

 

«Nutre la mente solo ciò che la rallegra.»

(Agostino, Confessioni, XIII)

 

«I libri sono pazienti»

(G. Manganelli, Discorso dell’ombra e dello stemma)

 

 

Cominciò nel 1980. Quando, a poco più di vent’anni, per quell’insieme mai del tutto definibile di suggestioni che fa scegliere il primo libro di un autore, presi a leggere Un Paese senza di Alberto Arbasino. A risfogliarlo dopo tanto tempo, per un esercizio d’ammirazione per lo scrittore morto nel mezzo della nostra clausura, quel saggio, che dovrebbe essere datatissimo – un addio agli anni Settanta! –, fa un effetto per niente diverso: aria tersa, marzolina, che scompiglia l’afa di conformismo senile, splenetico e rancoroso in cui l’Italia, divenuto solo diversamente Paese senza, ama concitarsi.

Col povero senno del poi, quell’«addio» appare tale e quale a quella comica di Stan Laurel e Oliver Hardy (Perfect Day del 1929) in cui la lieta partenza per un pic-nic in campagna s’incanta in un infinito Arrivedoorci!… Arrivedoorci! ai vicini di casa, senza che la macchina, ora per una magagna ora per l’altra, riesca mai a partire. Non è infatti tale e quale «il machiavellismo, il dannunzianesimo, il birignao, l’imbroglio, la cosiddetta arte di arrangiarsi, il presunto dolce far niente, l’incoerenza nei conformismi…»?

 

Nel 1980, Un Paese senza lo leggevo mentre frequentavo la facoltà di Lettere di Trieste: un luogo periferico, serioso, molto compreso della sua missione pedagogica; votato alla diffusione a tappeto, nelle università e nelle scuole italiane – vera fabbrica di professoresse e di professori – di un’idea allora quasi egemonica della Letteratura Italiana: una marcia plurisecolare lungo la linea darwiniana del sempre più realista, dai Siciliani ai tempi attuali, secondo la linea De Sanctis-Croce-Gramsci & epigoni… La fabbrica operava forte di un legame, come si diceva allora, «organico» con il Partito Comunista: tale che, quando capitava una protesta studentesca – allora non rarissima – che toccasse i baroni della facoltà, gli studenti iscritti a quello stesso partito, ma per forza di cose da un’altra parte su tante questioni della metaforica barricata, venivano convocati nella sede provinciale e lì severamente rampognati al cospetto degli stessi professori contestati al mattino, perfino accusandoli, se riottosi, di essere degli infiltrati dei terribili gruppuscoli che a Padova idolatravano il para-terrorista Toni Negri (episodi di cui fui per un periodo breve stupefatto testimone).

 

La facoltà di Lettere dunque, benché periferica e in fondo aggrappata a idee vecchie anche per quanto accadeva già in Italia, si mostrava certa di una sua «centralità» culturale, e questo soprattutto per l’ombra sempre incombente del Preside, da poco pensionato, autore di un celebre manuale per i licei di Letteratura Italiana che a lungo quasi monopolizzò l’insegnamento nelle scuole di Trieste e non solo. Senza metterne in dubbio i meriti anche se a tanti sfuggiti, e per quanto di sinistra, o forse proprio per quello, ciò che si può dare per certo è che nella comune solenne solerzia dei discepoli e dello stesso Preside si dava un ennesimo caso dell’«italianissima» e «totale mancanza di sense of humour» (Certi romanzi, Einaudi 1977) della nostra cultura. Non si rideva mai.

E certo allora si sarebbe risposto che non ci si iscrive alla facoltà di Lettere per divertirsi, che della Letteratura non era quello lo scopo. E poi l’alternativa quale sarebbe stata? Si fosse stati anche allievi del Lector in fabula di Umberto Eco, si sarebbe passati dalla padella alla brace, per annaspare cercando almeno di scimmiottare il gergo arcano di quella macchinetta formalistica, perfetta per «trasformare il godimento della letteratura in formule e diagrammi», buoni «per studenti con davanti a sé tutta una carriera di promozioni e di scatti fra dipartimenti e seminari» (Un Paese senza).

Eros pedagogicus in ogni caso zero. Se non per qualche insegnamento periferico, tenuto da professori giovani e di passaggio, magari allievi di Maria Corti, o insegnanti di materie eventuali come la Storia del cinema. Visti da noi di Lettere, quelli di Filosofia si divertivano già molto di più: avevano proprio un’altra faccia. Erano tempi in cui il prediletto allievo del Preside, e suo successore alla cattedra di Letteratura Italiana, riusciva nell’incredibile: rendere plumbeo l’Orlando furioso.

Ci si laureava così quietamente, in serie e con lode restando del tutto incolumi, per esempio, rispetto ai pasticciacci di Gadda, e senza nessuna Cognizione del dolore.

 

Siccome quasi sempre il tempo passa invano, una ventina di anni dopo, capitò di deliziarsi di un’intemerata proprio dell’ex Preside, in un corso sulla letteratura contemporanea concepito dall’Istituto Gramsci, contro Giorgio Manganelli, «scrittore della merda!», riferendosi in modo per quasi tutti criptico per i presenti all’Hilarotragoedia, essendo questi quasi tutti suoi ex-allievi e quindi puri rispetto alla lettura di cose così eccentriche. Proprio Arbasino avrebbe magari obiettato che Manganelli «coi sortilegi incorruttibili dell’artifizio e del ludibrio confutava il programma culturale-elettorale così decente dell’on. Francesco De Sanctis» (Ritratti italiani, Adelphi 2014). Confutava, appunto. Era un tempo, si potrebbe notare adesso con nostalgia, in cui esistevano le battaglie culturali.

 

Di Arbasino intanto lessi tutto il possibile. Così, in quel contesto di pedagogia engagée, l’inquietudine e il fastidio informe che lasciava una pletora di lezioni prevedibili fino alla virgola ascoltate diligenti al numero 7 di Via dell’Università, trovavano una voce chiara, un rispecchiamento illuminante. Illuminante proprio per proporre un altro modo, un modo vitale, di ritrovare e praticare «una “ripresa di contatto” con la Grande Tradizione italiana – specialmente lombarda. Nelle due strade maestre: l’Illuminismo “scientifico” e cosmopolita, il Romanticismo “delirante” e musicale» (Anonimo lombardo, II edizione, Feltrinelli 1966).

Dunque, Manzoni era davvero un grande scrittore; ma per capirlo serviva altro di quanto offrisse la nobile facoltà di Lettere: l’Adelchi di Carmelo Bene, Arbasino (Un Paese senza, Paesaggio italiano con zombi, ecc.), e prima di lui Gadda; e, subito dopo il trauma della morte di Moro, L’affaire Moro di Sciascia e la sua introduzione alla Storia della Colonna Infame, che nessuno ci aveva insegnato essere la vera fine del romanzo: questo senza nessun bisogno d’incappare nel coronavirus e confrontare le pesti.

 

Persino Parini, che, come il Mozart incipriato e lezioso che andava in quegli anni, poteva far uggia, era ben altro di quello che «letto e studiato a scuola», «non si capiva quasi niente» (Ritratti e immagini, Adelphi 2016). E da ripulire dalla stessa polvere, per non dire muffa, erano Petrarca e Machiavelli, «i veri antropologi tenebrosi della cara patria» (Fratelli d’Italia, III edizione, Adelphi 2000). Per non dire di Leopardi, che, molto più che il propinatore inesorabile e seriale di una batteria di pessimismi crescenti e progressivi, era il nostro autore ineffabile, sapientissimo; ed estremamente divertente, irridente e iconoclasta, che quindi proprio non si poteva piluccare in antologie capziose e ideologicamente selettive.

 

Per non negarsi niente, se la mattina si assorbivano diligenti le lezioni plumbee sull’Orlando furioso (per un esame finale a cui, possiamo mettere la mano sul fuoco, si prendeva trenta e lode senza che fosse stato necessario leggere un canto dell’Ariosto), la sera magari capitava di andare a vedere Paolo Poli, che prima dello spettacolo regalava divagazioni sulla letteratura italiana che parevano venire da un altro – bellissimo – mondo in cui scintillavano Gozzano, Palazzeschi, Parise, Artusi, Collodi… E la pensiamo sempre con la voce di Poli l’irrinunciabile La Belle Époque per le scuole, che, in coda a Certi romanzi, pare davvero ingiusto che non sia ancora stato ripubblicato, per replicare quel momento di liberazione da quel nostro secondo Ottocento afflitto palesemente da una «catastrofica ondata di rincoglionimento» (L’ingegnere in blu, Adelphi 2008), mentre in Europa c’erano Flaubert, Baudelaire, Melville, Poe, i russi…

 

Fuori della linea sempre più autistica De Sanctis-Croce-Gramsci, molte gitarelle «a Chiasso» Arbasino ce le offriva coi sui libri, a noi sfigati di provincia che non avevamo vissuti gli anni Sessanta e non abitavamo a Milano, quando alla Scala si trovava anche all’ultimo minuto un biglietto per la Callas o Karajan o De Sabata, e soprattutto senza esser stati seduti a Venezia tra gli occhi acquamarina di Grace Kelly e quelli viola di Liz Taylor. Comunque si accedeva alla possibilità di essere italiani in un modo più aperto al mondo, senza ideologie, provando a ragionare e a godere con la propria testa e i propri sensi, e insomma più liberi.

Dunque, non c’era solo la rassegna museale di una storia letteraria raccontata come una gloriosa marcia nei secoli verso il Realismo degli umili, e il neo-realismo degli oppressi, e il neo-neo-realismo dei proletari sindacalizzati, finendo «col confondere la buona letteratura con la Cassa del Mezzogiorno». Bastava andare a Chiasso, e guardare appena un po’ più in là della «burocrazia accademica che rimuove e accantona automaticamente fra gli irregolari e gli isolati tutti gli «inclassificabili» che non appartengono a un ovvio gruppo, una linea, una tendenza: e dunque non si possono irreggimentare in un plotoncino, nelle antologie scolastiche divise in reparti» (Ritratti italiani).

 

Anche a partire da lì, fu un aprirsi di percorsi sconfinati. È stato Eliot a dire che i grandi libri sono quelli che fanno leggere altri (grandi) libri? Quelli di Arbasino hanno aizzato a leggerne molti altri, e mai per un’ideologia o un partito preso suo. Viene in mente come Simone Weil definì Socrate: come il maestro che ebbe molti allievi ma nessun socratista. Così, pur frequentando la materna e iperprotettiva facoltà di Lettere di Trieste, abbuffandosi di regalatissimi trenta e trenta e lode, si diventava autodidatti.

S’imparava da sé che la migliore letteratura civile italiana, il «civico interesse per le cose, i fatti, gli individui» (Raffaele Manica, Introduzione al vol. 1 dei Meridiani dedicati ad Arbasino) non era di autori «organici» ad alcunché, ma di cani sciolti: Arbasino, Manganelli, Flaiano, Sciascia, Zanzotto… biblioteche a cui si accedeva non grazie ma malgrado l’università. Piuttosto ascoltando «l’ultima generazione che sul serio a vent’anni aveva già lu tous les livres: uno al giorno, e magari due o tre. Interamente, normalmente, anche divertendosi. Facendolo pesare, mai» (Fratelli d’Italia).

 

Grazie anche ad Arbasino, il punto diventava chiaramente se l’università potesse essere un luogo appunto del «piacere», quando invece «una larga parte della critica più seriosa si infischia sinceramente dei “piaceri del testo” – benché autorizzati da R. Barthes – perché serve unicamente agli addetti ai lavori (e non certo ai piaceri) che lavorano sui testi come geometri e ragionieri e statistici con un solo interesse: le carriere e i concorsi» (Ritratti italiani). Sempre col vano senno del poi, si potrebbe dire che la facoltà di lettere si trovava e si troverà sempre a vivere di suo, più o meno consapevolmente, il celebre paradosso che Edmund Husserl riconosceva nello statuto della psicologia: se vuole essere scienza ucciderà il suo oggetto; se vuole studiare la letteratura come cosa viva, non sarà scienza. Non è in effetti mai stato sui manuali che si è imparato a fare l’amore.