Uno sguardo sul cinema del reale

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Cinema dall’Est a Trieste e un omaggio a Pier Paolo Pasolini

di Francesco Leoncini

 

Sembra una storia uscita dalle cronache dei nostri giorni quella raccontata nel lungometraggio degli esordienti cechi Tomáš Weinreb e Petr Kazda in Já, Olga Hepnerová [Io. Olga Hepnerová]. La protagonista, una giovane donna di ventidue anni, prende a prestito un camion, si dirige verso la fermata dell’autobus nella centralissima Via Strossmayer a Praga e investe trenta persone, uccidendone otto. È il 10 luglio 1973, siamo nella Cecoslovacchia della durissima normalizace successiva all’invasione sovietica del ’68. Sarà l’ultima donna a essere condannata a morte nel suo Paese. Lei è una rifiutata dalla famiglia e dalla società o pensa di esserlo, è omosessuale, soffre di solitudine e di squilibri psichici. Ma questa sua personalità così eccentrica è forse indotta dall’ambiente e dall’atmosfera in cui vive? È la domanda che viene spontanea rispetto agli eventi di terrorismo di questi anni, quando mani assassine conducono a stragi o delitti efferati. L’emarginazione, l’irrilevanza sociale, il senso di insignificanza della propria esistenza, cui spesso condizioni di vita disumane costringono, non può forse portare a voler fare una “giustizia” sommaria contro chi vive la “vita normale”, a voler condurre una “vendetta”, che sembra una forma di riscatto totale?

Molto brava l’interprete polacca che i registi fanno muovere su uno sfondo cinematografico che ricorda la nová vlna, la nouvelle vague cecoslovacca degli anni ’60, dalla quale emersero personalità di eccezionale rilievo come Miloš Forman, Jiří Menzel e Věra Chytilová.

Nella presentazione al catalogo i condirettori del Festival, Fabrizio Grosoli e Nicoletta Romeo, indicano nel “cinema del reale” la tendenza che sta prevalendo nell’ambito delle varie manifestazioni e come quella di Trieste sia proprio particolarmente attenta a cogliere “le urgenze, le criticità sociali e i disagi di individui e società spaesate, frutto di un passaggio forse troppo repentino tra regime comunista e libero mercato”.

Ne abbiamo una chiara testimonianza nella coproduzione bulgaro-greca Slava [La gloria], di non particolare riuscita stilistica, ma che dipinge bene il contrasto tra l’onesto candore di un povero sorvegliante, che trova lungo la linea ferroviaria, e consegna alla polizia, le mazzette perdute di una tangente, dovute probabilmente al ministro dei Trasporti, e la risposta di falso encomio e di sostanziale disprezzo e irrisione che riceve dalle autorità e dal loro entourage amministrativo. Egli si trova di fronte la responsabile delle Pubbliche relazioni del ministero, “donna in carriera” e piglio manageriale, impegnata in tutt’altre faccende, nel tentativo tra l’altro di ottenere una fecondazione assistita, e il ministro che, in una farsesca cerimonia, gli fa dono di un orologio patacca, come ricompensa dell’atto compiuto.

Assumono il carattere dell’inverosimile, nella loro tragica realtà, le vicende proposte dall’ungherese Attila Till con Tiszta szívvel [Assassini a rotelle] dove un uomo handicappato, ospite di una struttura di assistenza, si trasforma in feroce killer all’interno di un traffico di droga, gestito da un serbo: la ricerca del denaro a ogni costo, con il quale il protagonista tenta di riconquistare la sua ex fidanzata, supera qualsiasi menomazione fisica e lo porta a coinvolgere i suoi stessi compagni di stanza. È un mondo crudele e violento, indifferente alle infermità e al dolore quello che appare dalle sequenze. Ma Queste sono le regole [Takva su pravila], come dire questo è il nuovo mondo, ed è quanto viene anche rappresentato dal croato Ognjen Sviličić nel narrare il dramma di due genitori che si aggirano disperati in un’anonima Zagabria quando si accorgono che il figlio è stato vittima di   un grave atto di bullismo e cercano di salvarlo portandolo in ospedale. Devono però amaramente constatare l’insensibilità alla loro situazione da parte dei sanitari, che si trincerano dietro le procedure formali, ma ancora prima soccombere all’incompetenza di un medico.

A cercare di riequilibrare un mondo disarticolato e dare un senso positivo alla vita ci prova una ragazza di quattordici anni, Ola, che la regista polacca Anna Zamecka riprende al centro di una travagliata storia famigliare nel suo documentario Komunia [La Comunione]. Il padre alcolizzato, il fratello autistico, la madre che se n’è andata sono i personaggi di una condizione esistenziale che essa caparbiamente tenta di dominare e per i quali vorrebbe recuperare una dimensione di conviviale serenità. L’occasione può essere la cerimonia della prima Comunione, dalla quale Nikodem è stato inizialmente escluso dal sacerdote per le sue difficoltà relazionali. Vi riesce, ma è solo un momento effimero e non prevale quella “forza incondizionata dell’amore”, che la regista vuole riconosciuta nell’impegno della protagonista.

La desolata e magica vicenda di Blagodať[Stato di grazia] dell’ucraino Vitalij Manskij, ambientata in uno sperduto villaggio russo, ci conduce a una riflessione sullo stato del cinema e della cultura nella Russia di Putin, del quale egli parla nella sua intervista in catalogo. Vi è in lui la sottolineatura dell’antinomia tra quella che chiama la “civiltà europea” e la tradizione autocratica e repressiva moscovita reinterpretata dall’attuale leader del Cremlino. Resta da vedere quanto rimanga in Occidente degli originari ideali democratici e quale sia il grado di manipolazione al di là delle libertà formali, anch’esse non sempre garantite.

Già negli anni ’60 e ’70 Pier Paolo Pasolini, al quale la sezione Varcare ha dedicato un omaggio, denunciava i pesanti limiti posti alla vita civile italiana dal potere politico di allora e lo stravolgimento che la cosiddetta “modernizzazione” stava operando sul tessuto culturale e sulle più genuine tradizioni del Paese. È giunta perciò assai opportuna la rievocazione del viaggio che lo scrittore fece nel ’59 lungo tutta la costa italiana, le cui impressioni raccolse in La lunga strada di sabbia. Essa è stata fonte di ispirazione per due autori belgi, Chantal Vey, che rifà il viaggio all’inverso, partendo da Trieste, e Gilles Coton, che ne segue puntualmente le orme partendo da Ventimiglia. Vi si incontrano i genitori di Carlo Giuliani, ucciso a Genova nel 2001, che accusano un’Italia senza dignità, vi si ricordano a Livorno i quattro bambini rom ai quali ignoti appiccarono il fuoco nell’agosto 2007 e che morirono carbonizzati sotto un cavalcavia nell’indifferenza della popolazione.[A loro e agli operai bruciati vivi alla ThissenKrupp di Torino dedicai il volume Alexander Dubček e Jan Palach. Protagonisti della storia europea (Rubbettino), mettendo in rilievo come, diversamente da Palach e dai suoi emuli, il fuoco alimentato da esseri umani non fosse in quei casi segno di protesta ma di persecuzione e sfruttamento].

Il paesaggio italiano è ovviamente molto diverso da allora. Le colate di cemento e il traffico convulso hanno soffocato non solo le più belle coste del Mediterraneo ma anche, come aveva previsto Pasolini, quella freschezza di emozioni e quella luminosità umana, espressioni del retaggio di culture millenarie.