RICORDO DI CALLISTO COSULICH

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callisto cosulich A UNA CONFERENZAdi Elisa Grando

 

Ora che Callisto Cosulich non c’è più, e che non sentiremo più le sue lunghe, coltissime e dettagliate dissertazioni sul cinema al telefono, ogni qualvolta lo si chiamava a Roma per qualche articolo o per parlare dei film in uscita, è tempo di riprendere in mano lo sterminato corpus dei suoi testi per ricordarci i tanti insegnamenti che la sua attività di critico, in quasi settant’anni di appassionato esercizio, ci lascia in eredità. Delle dimensioni sconfinate della sua produzione letteraria abbiamo preso (incompleta) misura nel volume Il coraggio della cinefilia – Scrittura e impegno nell’opera di Callisto Cosulich (a cura di Elisa Grando e Massimiliano Spanu, ed. EUT, 2012), cercando di tirare le fila di una figura centrale della critica italiana eppure mai imbrigliata dai doveri di una eccessiva “istituzionalizzazione”.

La prima lezione che Callisto ci consegna, dunque, è quella della libertà di critica. Pur essendo diventato negli anni ’60 cronista in Parlamento per il settimanale ABC (cosa che gli permise sempre di “tenere gli occhi sul mondo, sulla realtà” anche parlando della settima arte, guardando non solo al “testo” audiovisivo ma anche al suo “contesto”, sociologico, economico, produttivo, legislativo), e diventando poi critico in carica a Paese Sera, quotidiano vicino al PCI, non ha mai preso alcuna tessera. «Non sono mai stato tesserato a un partito, perché volevo mantenere e poter esprimere la mia libertà di giudizio», teneva a puntualizzare. Caratteristica rara, la sua, soprattutto negli anni ’60 e ’70, quando critica cinematografica e attivismo politico andavano spesso di pari passo.

La seconda lezione che Cosulich ci lascia è quella di porsi davanti a qualsiasi film senza pregiudizi: nelle sue recensioni, dalle prime su Il Giornale di Trieste a quelle pungenti del settimanale di costume ABC, dalla lunga rubrica su Paese Sera alle ultime scritte per Il Piccolo, la produzione di genere e le opere dei grandi autori, le cinematografie “marginali” e i blockbuster di Hollywood avevano la medesima dignità critica. Anzi: proprio lì dove nessuno pareva intravedere elementi significativi per una riflessione sul cinema, nell’horror e nel documentario indipendente, nello sci-fi e nel film soft-erotico, Cosulich riusciva a individuare i segnali del cambiamento. «Non sembri un paradosso, in questi ultimi tempi sono stati proprio i film di fantascienza realizzati a Hollywood ad aprire uno spiraglio di luce su quella nuova, particolarissima America che ci è costantemente negata dall’abituale film americano», scrive per esempio su Cinema Nuovo nel 1956.

La sua mente era libera anche di osare accostamenti all’apparenza bizzarri. Lo fa notare Leonardo Gandini nel suo saggio Il tempo della critica in Il coraggio della cinefilia: «In qualche caso gli accostamenti, le convocazioni del cinema del passato come ausilio per leggere quello del presente, sono estrosi, sorprendenti, inattesi (ma non per questo meno pertinenti). A conclusione della recensione de Il cattivo tenente (Paese Sera, maggio 1993), su Abel Ferrara si legge: “Non sembri troppo bizzarro se mi viene di paragonarlo non a uno dei tanti, brillanti specialisti del crime movie, ma nientemeno che al grande e severo Bresson. Sì, proprio all’inossidabile maestro che nel 1956 aveva descritto con la stessa pedante attenzione ai particolari la fuga dalla prigione di un resistente francese condannato a morte dai tedeschi».

Callisto Cosulich ha iniziato la sua attività di critico negli anni ’40 sul Giornale di Trieste: la congiuntura storica gli ha permesso dunque di recensire in tempo reale quelli che sarebbero stati considerati i capolavori del Neorealismo. Ed è dunque impossibile anche dimenticare lo straordinario intuito di Callisto nel costruire un “canone” in fieri, nella capacità di storicizzare sul momento un nuovo cinema che appena allora andava definendosi. «Ladri di biciclette conclude un’annata particolarmente felice della cinematografia italiana. A conti fatti, nessuno al mondo può vantare di aver dato in un anno tre film del calibro di Germania anno zero, La terra trema, Ladri di biciclette», scrive Cosulich sul Giornale di Trieste recensendo il capolavoro di De Sica, il 13 febbraio 1949. «Il cinema italiano, dunque, a due anni di distanza dalla sua prima grande affermazione (Roma città aperta, Sciuscià e Paisà), riconquista il suo netto predominio nel mondo e lo riconquista in modo più solido del precedente, perché non legato ad una particolare contingenza storica: oggi la parola “dopoguerra” non ha più senso; il nostro film vince perché esprime le varie personalità di un gruppo di registi creatori, che tutto il mondo di invidia». Lo stile di Cosulich è estremamente lucido e colto, eppure sempre vicino al lettore, al servizio di una “leggibilità” che lo differenzia dagli intellettualismi di tanti suoi contemporanei. «Ed è sempre questo, forse, il motivo per il quale oggi, in epoca che si definisce “post-teorica” (ovvero in un’epoca in cui gli “ismi” degli anni Settanta e Ottanta sembrano essere stati superati), si ritorna alla generazione di Cosulich, di Kezich, di Giraldi (…) come a modelli di buon senso critico e scrittura ragionevole, anche da parte di coloro che militavano nella “giovane critica” e vedevano i titolari di rubriche sui grandi quotidiani come il fumo negli occhi», ricorda infatti Roy Menarini nel suo saggio La costruzione del canone. Cosulich al “Giornale di Trieste. L’esempio più lampante di questa prossimità col grande pubblico sono i celebri cicli sul cinema curati da Cosulich per la Rai negli anni ’70: il critico, col suo consueto talento nell’unire semplicità e acume, spiegava in prima serata la meraviglia e la rivoluzione stilistica del cinema giapponese, della New Hollywood, Billy Wilder, Ozu Yasujirō, Josef von Sternberg.

L’amore per il cinema era nato in Cosulich molto precocemente, nei lunghi pomeriggi trascorsi a Trieste, dopo la prematura scomparsa dei suoi genitori. Era nato a Trieste il 7 luglio 1922 dalla grande famiglia lussignana di armatori, ed era rimasto presto orfano: suo padre Oscar Cosulich era morto nel 1926, la madre Maria Nicolich appena 9 anni dopo. Il piccolo Callisto era quindi presto rimasto solo, accudito da una fedele tata e, come amava ricordare, sollevato da qualsiasi incombenza pratica. Aveva invece molto tempo per leggere e cominciò subito ad appassionarsi al cinema. Quando scoppiò, la guerra, nel 1939, Cosulich era in vacanza di studio in Germania, a Duisburg, mentre nel giugno del 1940, quando il conflitto arrivò anche in Italia, stava prendendo la maturità al liceo classico Dante di Trieste (per questo, soleva dire di aver «visto scoppiare la guerra due volte»). Nel 1942 Cosulich si era iscritto a un corso per ufficiale di complemento a Livorno ottenendo la qualifica di “movie officer” sulla nave e inaugurando così il suo percorso di operatore culturale: Callisto aveva accesso anche ai film americani “proibiti” agli spettatori in borghese, e proprio la notte dell’8 settembre 1943, quella dell’armistizio, aveva proiettato per i soldati sulla nave L’eterna illusione di Frank Capra. Tornato a casa, dal 1948 al 1953 non solo aveva iniziato a scrivere sul Giornale di Trieste, ma, insieme a Tullio Kezich, aveva fondato la Sezione Cinema del Circolo della Cultura e delle Arti, un vero punto di riferimento per la discussione sulla settima arte anche a tu per tu con i grandi registi del tempo che intervenivano personalmente a Trieste, come Luigi Zampa, Michelangelo Antonioni che dialogò col pubblico su Cronaca di un amore, il celebre documentarista Joris Ivens. Nel 1950 Cosulich aveva poi deciso che il cinema sarebbe stato definitivamente il suo futuro e si era trasferito a Roma, dove viveva con Gillo Pontecorvo e Franco Giraldi, fino all’incontro con la moglie, l’attrice Lucia Rissone, che aveva sposato nel 1955. La capitale ha dato un impulso decisivo alla sua attività critica: i testi di Cosulich sono comparsi sulla rivista Italia domani, su ABC, su Bianco e Nero. Dal 1973 aveva sostituito Vasco Pratolini diventando titolare della critica cinematografica a Paese Sera, poi aveva scritto ancora su Avvenimenti e dal 1989 anche su Il Piccolo. Il cinema e la vita, per lui, erano le facce diverse di un’unica esperienza: per questo anche a Roma si era impegnato come uno dei più importanti animatori del panorama cinematografico, da Segretario Generale della Federazione Italiana Circoli del Cinema – FICC, fondando con Enrico Rossetti il primo cinema d’essai italiano, il “Quirinetta” di Roma. Poi lo avevano chiamato i grandi festival: è stato consulente e selezionatore al Festival di Berlino e alla Mostra del Cinema di Venezia.

Il suo amore per il cinema era onnivoro e implacabile, non si saziava certo con i titoli dei circuiti commerciali. Ed ecco un’altra lezione che Cosulich ci lascia: saper guardare agli angoli dello schermo, non stancarsi di andare alla ricerca del cinema che ancora non si conosce, del nuovo talento, della cinematografia inaspettata. E saper trasmettere al pubblico, con solida capacità argomentativa, gli esiti delle proprie scoperte, i propri “colpi di fulmine”. Per esempio quelli che il critico citava come i suoi titoli “cult” e che raccontava con immutato, contagioso entusiasmo, come chi ancora si stupisce di essere riuscito a fare della sua passione un lavoro, per tutta la vita. «Alcuni dei miei film di culto sono l’intera trilogia che Mark Donskoj ha dedicato al trittico autobiografico di Gor’kij, L’infanzia di Gor’kij, Tra la gente, Le mie università», citava a memoria. «Poi Viaggio senza fine di John Ford, tratto dai Drammi marini di O’Neill, il più bel “film di mare” che io ricordi, anche se è stato girato in una vasca di Hollywood. Unter den Brücken di Helmut Kaütner, un’incredibile storia d’amore, girata nel 1945 a bordo di una chiatta sulla Sprea: incredibile poiché si svolge in un ambiente idilliaco, in pace assoluta, sebbene l’Armata Rossa sia già giunta quasi alle porta della capitale tedesca. Totò e i re di Roma, tratto da due novelle di Čechov, il primo film che rispetti lo spirito dello scrittore. E I cannibali di Manoel De Oliveira, un film – opera cantata, dove i protagonisti dell’alta borghe­sia lusitana finiscono per mangiarsi a vicenda. Da far impallidire Buñuel». L’ultima lezione di Cosulich, la più importante, dunque, è quella di lasciarsi ancora stupire dal cinema.

 

 

Per saperne di più:

 

Il coraggio della cinefilia. Scrittura e impegno nell’opera di Callisto Cosulich, a cura di Elisa Grando e Massimiliano Spanu, EUT Edizioni Università di Trieste, 2012, pp. 199, Euro 16

disponibile anche in pdf:

https://eut.units.it/dettaglio?query=JID=40