Rileggendo il caro estinto

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Scomparso Antonio Pennacchi, si riscopre il suo libro sulle città nuove del fascismo

di Roberto Curci

 

Funziona quasi in automatico. Scompare uno scrittore di chiara fama? Tra lacrime vere o fasulle gli editori si buttano a capofitto nell’”Operazione ristampe”, riproponendo non solo i titoli famosi dell’illustre estinto, ma anche quelli minori o meno noti. Anzi, soprattutto quelli. Business is business.

Sembrava succedere così anche nel caso di Antonio Pennacchi, mancato da poco. Ma dalla casa editrice Laterza smentiscono: il suo istruttivo e gustoso Fascio e martello non è in frettolosa ristampa (come asserito da alcuni librai interpellati) bensì ancora disponibile, nonostante sia datato 2008 e abbia dunque la sua bella età.

Costruito come un collage degli interventi pubblicati da Pennacchi fin dal 2003 sulla rivista Limes di Lucio Caracciolo, il quale nel volume firma anche la spiritosa Presentazione aggratis (sic), Fascio e martello spiega la propria ragion d’essere nel sottotitolo: Viaggio per le città del Duce. Ovvero un censimento colorito, divertito e divertente (ma impeccabile, informatissimo) delle “città nuove”, o meglio delle “città di fondazione” volute dal fascismo nell’arco degli anni Trenta.

Per lo scrittore nato e sempre vissuto a Latina, già Littoria, quasi un atto dovuto, anche perché insospettito dalla relativa, apparente penuria dei siti edificati ad hoc (in genere su terreni strappati ad acquitrini e paludi, cioè bonificati). L’esito è clamoroso: altro che i classici dodici nomi – Littoria, Sabaudia, Pontinia, Guidonia, Aprilia, Pomezia, Mussolinia (poi Arborea), Fertilia, Carbonia, Arsia, Torviscosa, Pozzo Littorio –, nel suo vagabondare tra città, cittadine, borghi e villaggi agricoli Pennacchi scopre e scheda nientemeno che 147 “città nuove”. Ohibò.

E, nell’inevitabile serialità costruttiva e architettonica (chiesa, Comune, Casa del fascio, Poste, scuole, carabinieri, cinema, bar, dopolavoro, albergo), s’incanta dinanzi a piccoli capolavori razionalisti totalmente ignoti, tagliati fuori dalle grandi vie di comunicazione, magari isolati in mezzo a plaghe ormai praticamente disabitate. Quando da lontano, di notte, intravvede il campanile illuminato del duomo dell’introvabile, minuscola Segezia («una torre alta, tutta piena di buchi») sbotta in uno stupefatto “Madonna!”, e un altro gli esce quando arriva nella piazza e si trova dinanzi a un edificio rosso: «Un loggiato, ovvero tre piani di archi che dietro hanno il vuoto», splendido, a metà tra il “Colosseo quadrato” dell’Eur di Roma e una “piazza d’Italia” alla De Chirico.

Col suo madornale campanile, quasi un’astronave nel deserto, «Segezia è del 1940. È  la prima di quattro cittadine costruite intorno a Foggia», nell’ambito di un megaprogetto frustrato dalla guerra, che prevedeva l’edificazione di ben 103 centri abitati e dunque «l’antropizzazione di quel deserto latifondistico che era ed è la piana della Capitanata». Di giorno è una “città fantasma”, alla sera vi rientrano gli immigrati poveracci che si sono rotti la schiena lavorando nei campi al soldo (infimo) di padroni negrieri.

Ma sono tantissime, la netta maggioranza, le “città fantasma” tra le 147 certosinamente testate da Pennacchi. Non così una cittadina geograficamente ben più vicina a noi, benché ormai non più italiana. «Arsia – scrive difatti l’autore – è proprio bella. È un posto dove uno arriva e dice: ‘Qui mi piacerebbe vivere’, un buon posto per crescere i figli» («peccato solo che adesso sia all’estero e un po’ fuori mano»). «È sostanzialmente una città-giardino, una di quelle città che l’architettura moderna dice che fanno schifo. A loro piacciono i grattacieli, le torri, la città verticale».

Pennacchi (chi lo conosce lo sa) non ha peli sulla lingua, verrebbe da dire che parla come mangia, e scrive come parla. Di Arsia s’innamora, ma non di amore cieco, dato che ne riscrive senza sconti la nascita e la crescita (1936-’37), collegate, come si sa, all’industria estrattiva del carbone, anzi della lignite con cui Mussolini voleva sopperire in chiave autarchica alle esigenze degli italiani. Dunque c’è spazio in queste pagine per le figure, strettamente connesse, dell’industriale torinese-triestino Guido Segre e dell’architetto triestino Gustavo Pulitzer Finali: manager dell’impresa come titolare della società CarboArsa, il primo; pianificatore e costruttore, il secondo. Della complessa figura dell’ebreo Segre, delle sue grandi fortune e delle sue disgrazie, Pennacchi tratta con penna affilata; dell’ebreo Pulitzer Finali loda la sagacia costruttiva: «Si alternano in tutta la città almeno sei o sette diverse tipologie, con un effetto di brio e varietà che non troverà riscontro nella piatta uniformità della successiva Carbonia».

Già: Carbonia, anno 1938, ancora nelle mani della coppia Segre-Pulitzer Finali (ma quando sarà inaugurata da Mussolini Segre sarà già out, stroncato dalle leggi razziali, mentre il partner sarà saggiamente filato per tempo, prima in Svizzera, poi in America). Nata per lo sfruttamento delle risorse minerarie del Sulcis, Carbonia è uno dei quindici siti di fondazione sorti in un decennio in Sardegna, con un bel campanile che Segre stesso volle in tutto e per tutto simile a quello di Aquileia. Oggi rientra nella provincia di Carbonia-Iglesias; in quella di Sassari sta invece il “villaggio rurale” di Fertilia, realizzato a più mani nell’arco di quasi dieci anni, compresi quelli della guerra, e compiuto del tutto appena nel 1945.

Fertilia merita un discorso a parte, e sta qui una lacuna del libro di Pennacchi, che del presunto villaggio, oggi ridotto ad anonima frazione di un capoluogo, non coglie la vera, particolarissima fisionomia sopravvenuta. Nato ufficialmente nel marzo del 1936 con la sola posa della prima pietra della chiesa parrocchiale, il borgo doveva costituire una valvola di sfogo per la popolazione rurale in eccesso della provincia di Ferrara (ne era titolare, in effetti, l’Ente ferrarese di colonizzazione).

Sennonché, dopo i primi arrivi di immigrati emiliani, tutto si fermò a causa della guerra, e Fertilia crebbe erraticamente proprio negli anni del conflitto, senza che se ne comprendesse bene la destinazione. Ci volle il biblico esodo degli italiani dell’Istria e della Dalmazia per popolare il sedicente borgo agricolo. Vi giunsero in gran numero nel 1947, e vi si stabilirono come in un’enclave gelosa dei propri trascorsi storici e delle proprie tradizioni.

Oggi Fertilia, frazione del Comune di Alghero, a due passi dall’aeroporto, conta circa duemila abitanti, piazze e strade sono intitolate a luoghi e avvenimenti storici del Veneto e della Venezia Giulia. E la chiesa parrocchiale, anziché al Sacro Cuore come agli inizi, è dedicata a San Marco, del cui campanile veneziano quello della cittadina è una mini-copia…

 

DIDASCALIE

Gustavo Pulitzer Finali

La chiesa di Arsia