Rileggere la gerarchia di Ackermann

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Ristampato il terzo romanzo di Giuseppe O. Longo

Un’unica enorme tela che va componendosi, e dove ogni segno è utile, ogni nuovo grumo di colore è importante quanto quello sottostante

di Luisella Pacco

 

Qualche giorno fa, ho messo la sveglia molto prima del solito. Volevo uscire prestissimo e avere uno spazio per me, prima delle cose normali, prima del lavoro, prima del mio nome cognome viso, prima della vita.

In quell’ora rubata e anonima, sono andata a far due passi in Ponterosso, e in Via XXX Ottobre, al numero 3, ho ciondolato di fronte al portone e davanti alla storica pasticceria lì accanto, dal grande lampadario di Murano; poi ho camminato un po’ e mi sono specchiata nel canale guardando giù dal ponte. Non mi vedevo, non era sorto il sole.

Se qualcuno mi avesse chiesto Perché sei qui in quest’ora bizzarra?, gli avrei detto onestamente: ho letto un libro, e il protagonista vive qui, e in quella pasticceria si reca ogni giorno con un amico, che è goloso come un fanciullo; sto aspettando che esca di casa con un plico sotto il braccio, e che si avvii al ponte; temo che…

Ma nessuno mi ha chiesto niente né mi ha vista, avevo il privilegio di cui godono le ombre.

Solo dopo questi minuti stralunati e sghembi, mi sono risvegliata davvero, sono entrata in un bar che apriva in quel momento, ho pronunciato il primo buongiorno ordinando un capo in b, e ho iniziato la mia giornata.

Ci sono libri che fanno fare di queste appassionate pazzie. Perché sono libri appassionati e pazzi.

La gerarchia di Ackermann è uno di questi.

Uscito per l’editore Mobydick nel 1998, ricordo di averlo letto di lì a poco, senza capirlo, forse nemmeno adeguatamente apprezzarlo. Avevo trent’anni, e trenta non sono abbastanza.

“Molte cose non le capisco ancora, altre le ho capite quando non mi serviva più di capirle” diceva Buzzati di sé. Si riferiva a cose della vita, certo, ma anche nella lettura può capitare.

Per alcuni libri occorre sulle spalle il peso di molti ricordi, occorre conoscere l’assillo pungolante della memoria, occorre potersi girare indietro di vent’anni (e chiedersi sgomenti Come sono passati?) e rivedersi adulti al bivio di qualche scelta fondamentale.

Ristampato l’anno scorso dalla casa editrice Jouvence, La gerarchia di Ackermann mi è tornato tra le mani uguale ma per me rinnovato, ora, ora che forse ho l’età per tutto questo. E infatti, la lettura coinvolgente e ipnotica è stata tutt’altra cosa.

 

Come in altre opere di Giuseppe O. Longo – nella sua sterminata produzione, tra romanzi, libri di divulgazione scientifica, testi teatrali, duecento racconti (“il racconto è un arco teso” dice, tirando con pollice e indice una curva nell’aria, con gli occhi brillanti, svelando una preferenza per la brevità) – anche qui il protagonista è un uomo di scienza messo di fronte a vertigini esistenziali, a sensazioni oblique e stranianti.

In Di alcune orme sopra la neve (1990) un giovane fisico cerca di rifare una mappa che gli consenta di muoversi nel Centro di ricerca dove lavora. Ma che cos’è il Centro se non metafora della vita? Ed esiste una mappa definitiva ed esatta che possa guidarci fedelmente nella sua faticosa esplorazione? Naturalmente no, ma è nostro preciso dovere cercare di disegnarla, nostro preciso dolore sapere che non ci riusciremo.

Ne L’acrobata (1994) l’iniziale indagine sulla macchina per decrittare Enigma diventa pretesto per indagare su amari enigmi che sono insieme universali ed intimi.

Ne La gerarchia di Ackermann, infine, il protagonista viene travolto dai ricordi di un’insana passione vissuta vent’anni prima.

Tre personaggi distinti eppure molto simili (che crescono d’età, maturano insieme a chi li scrive), figure che coincidono per buona parte dei loro tormenti: amori spesso ardenti e angosciosi, madri spesso soffocanti, una mente logica e razionale che però non li soccorre, non li aiuta, che li lascia smarriti e senza strumenti dinnanzi agli umani abissi, dove solo il sentimento e la carnalità prepotente del corpo vivo offrono una vaga consolazione.

Ripetizioni gratuite, scarsa fantasia dell’autore? Certo che no. Piuttosto, direi, aggiunte precisazioni stratificazioni, lavoro di cesello, pennellate di vernice una sopra l’altra su un’unica enorme tela che va componendosi, e dove ogni segno è utile, ogni nuovo grumo di colore è importante quanto quello sottostante. Tante opere che ne fanno una.

 

Accade perciò che, leggendo un libro di Longo, si provino suggestioni che vengono da un altro suo libro, e un altro ancora.

Ad esempio, mentre leggevo La gerarchia di Ackermann mi è venuto in mente un passo de L’acrobata. Non ricordavo le parole esatte né la pagina, ci ho messo un po’ a ritrovare il punto; ma rammentavo lo struggimento che mi aveva procurato.

Sì, passa sempre un certo tempo tra un fatto e le sue conseguenze, […] anche la nostra percezione è sempre soggetta a un certo ritardo, i segnali devono avere il tempo di propagarsi lungo le fibre nervose, sicché il mondo che vediamo e udiamo e tocchiamo non è mai il mondo com’è adesso, ma com’era un po’ di tempo fa. Viviamo sempre in ritardo, è una delle tante imperfezioni di questo mondo imperfetto.

Già, quanto tempo passa tra un evento e la percezione che ne abbiamo: un istante, quel che serve alle fibre nervose a portare il segnale, appunto; oppure anni, uno, venti, la vita intera, quel che occorre ad accendere un cono di luce rivelatore su quel che ci era accaduto.

E in questo frattempo miseramente inafferrabile, anguilla sotto le mani, cosa siamo stati? Mi chiedo persino: siamo esistiti?

 

Considerate ad esempio quest’uomo.

Si chiama Guido Marenzi, è un matematico, l’incipit lo sorprende in una notte estiva mentre, accanto alla finestra spalancata, fa degli esercizi di respirazione, unico rimedio agli attacchi di tosse che lo prendono al tramonto disturbandolo fino a notte.

Ha ricevuto un plico da Budapest. Non si sa di chi sia o cosa contenga, Guido non lo apre ancora. Lo sposta poggiandolo via via dove non possa dare incomodo, su letto tavolo scacchiera, ma comunque vicino. Lo teme ma ha anche bisogno di osservarlo, soppesarselo con gli occhi. Comincia a meditare, supporre, rimuginare. Chi gli scrive, cosa?

Una vicenda di vent’anni prima lo travolge con una forza morbosa inesplicabile, molestandolo di domande per ventiquattr’ore, una giornata intera dedicata a rivivere quei giorni remoti.

In questi vent’anni è pur vissuto, ha avuto impegni amicizie carriera, altro amore. Ma in queste ore difficili, tutto ciò vale meno di zero. Se sulle fibre nervose l’impulso viaggia in un attimo, sulle fibre (come immaginarle?, di quale consistenza, di quale sanguigno colore?) dell’amore e dell’ossessione erotica, l’impulso viaggia a lungo, va avanti va indietro, vent’anni sono niente, una beffa, sono il tempo appena necessario per comprendere quello che forse non si era mai compreso.

Proiettato indietro dalla sola visione di quel plico misterioso, Marenzi ricorda e rielabora la sua passione per Eva Farkas.

 

A Budapest con la moglie Giuliana, si era trovato invischiato in un intrigo osceno, asfissiante.

Farkas (che in ungherese vuol dire lupo) – critico musicale, lussuosa casa, ampia biblioteca, uomo coltissimo eppure rozzo e sporco nei sentimenti – gli aveva messo tra le braccia la moglie Eva, bellissima, sensuale, ambigua, forse pazza, gli occhi sempre assenti, come smarriti, fissi su indecifrabili lontananze.

Sudici anche gli altri: il neurologo che toccava lungamente il corpo stupefacente di Eva con compiaciuti sordidi palpeggiamenti, forse d’accordo con Farkas al solo scopo di eccitare Marenzi e farlo cadere nella rete; Kühlmorgen, i suoi consigli falsi, insinuanti; e forse anche Giuliana; e lui, Guido, può forse chiamarsene fuori? Lui che tradiva, che si accompagnava a persone senza scrupoli, che mi stavo dissipando, che stavo dissipando i miei talenti di matematico e che stavo dissipando l’amore di mia moglie e il mio matrimonio per correre un’avventura pericolosa in compagnia di gente capace di ogni bassezza.

Ma la stessa Budapest, pure splendida – le languide passeggiate sulla Várhegy… -, è malata.

[…] nelle notti d’inverno si vedeva fino al Parlamento la distesa dei tetti coperti di neve sporca, sovrastati da ondeggianti cortine di fumi neri e gialli come catarri contro il cielo grigiorosso che sta sopra le grandi città invernali, un cielo privo di ogni residua qualità vitale, un cielo già morto.

E anche Trieste è malata, pur con le sue strade fascinose, col suo vento folle che rischiara il cielo e però conduce gli abitanti alla nevrastenia colpendoli incessantemente alla nuca con la forza di uno scappellotto di madre crudele.

Se una città è una sorta di emiplegia o di paralisi, […] Trieste lo è più d’ogni altra. Sempre minacciata da un’embolia, prelude a tutti i possibili futuri, ma li rifiuta, rancorosa. Alta nelle stagioni, porta la segnatura di tutte le cose, ma incerta, non piena, un po’ esangue come il suo mare non ancora meridionale.

E persino la matematica in fondo è una malattia della mente.

 

Cosa resta di puro, sano, semplice, ristoratore?

L’unica speranza consiste forse nel dimenticare. Perdonare, perdonarsi.

Arrivai al ponte, mi appoggiai alla ringhiera. Nella luce rosata dei globi il plico appariva più arancio che giallo, un colore meno acido e pericoloso, un colore che quasi offriva amicizia o almeno comprensione, un colore che sembrava confondere in sé il bene e il male, annullando lo spazio che sempre avevo creduto dividesse le opposte schiere dei buoni e dei cattivi, un colore che mi ricordava i tramonti, che sapeva di vento alto, di sguardi tesi verso un’immensità. Lì sulla spalletta il plico si era calmato, non emanava più alcuna urgenza, non esigeva di essere aperto, se ne stava immobile, in attesa. Era, aveva la forza elementare delle cose che sono.

Ciò che conteneva non aveva più nessuna importanza, i suoi messaggi non m’interessavano più, riguardavano qualcun altro, un uomo molto più giovane, affannato, debole, un uomo che viveva su un altro pianeta, lontanissimo, dove la vita era un’avventura acre, intessuta di sesso e di disperazione, di slanci e di veleni, di irragionevoli passioni. lo non ero quell’uomo, quell’uomo sprofondava nel passato da dove era riemerso inaspettato la sera prima.

[…] L’acqua placidamente respirava nell’ora di notte.

 

L’ostinazione a sapere, serve?

È servita mai?

 

 

Copertina:

 

Giuseppe O. Longo

La gerarchia di Ackermann

Jouvence, Sesto San Giovanni, 2016

  1. 365 euro 20,00