Romanzi di Giovanni Ferrara

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Una panoramica sulle sue opere narrative

di Anna Calonico

Giovanni Ferrara (Roma 1928 – Pavia 2007), intellettuale laico, voce della sinistra più indipendente e critica, antifascista e senatore per diverse legislature, insegnante di Storia Antica all’Università di Firenze, collaboratore de Il Mondo, Il Giorno, La Repubblica, studioso di grande livello e autore di numerosi saggi, soprattutto di Tucidide e Giulio Cesare, definito da Repubblica “amico dei giovani” nel dare la notizia della sua morte (proprio dopo aver parlato ai giovani in una serata della Scuola di Formazione Politica di “Libertà e Giustizia” a Pavia è stato colto dal malore che lo ha portato alla morte) ha esordito nella narrativa con Il senso della notte nel 1995, facendo seguire a questo primo esile libro La visione (1996) e La sosta (1997), mentre soltanto dieci anni dopo, postumo, è uscito per Garzanti Il fratello comunista, dedicato al fratello Maurizio.

I primi tre romanzi, tutti pubblicati da Sellerio, hanno in comune alcuni temi (la notte, la solitudine, la morte, il ricordo del passato, le atrocità della guerra) oltre allo stile inconfondibile: periodi lunghi e spezzettati in numerose subordinate che riportano i pensieri del protagonista (sempre una non meglio identificata terza persona) come in un lungo flusso di coscienza alla James Joyce, a volte difficile da seguire, ma intenso, pieno di significati e di riflessioni.

Il senso della notte (Sellerio, Palermo, 1995, pp. 93) vede per la prima volta affacciarsi sulla pagina, pronto a raccontare la sua storia, un personaggio che non viene mai chiamato per nome, ma che, pur essendo soltanto un’ombra, suggerisce al lettore di identificarlo con l’autore stesso. Racconta tre momenti della sua vita: tre soli momenti, dilatati nello spazio e nel tempo del pensiero che si perde nei ricordi e mescola i fatti e le idee, collegandoli l’uno all’altro, lasciandoli e riprendendoli più volte. I tre capitoli riguardano le lunghe notti insonni della giovinezza, trascorse in uno studio profondo e costante, la ritirata di un gruppo di tedeschi proprio sotto la sua finestra, nel giugno del 44, dopo la battaglia di Roma e, infine, un’escursione in montagna in uno dei tanti luoghi in cui si è combattuta la Grande Guerra. Solo leggendo quel centinaio scarso di pagine si può capire fino a che punto i tre fatti, apparentemente così diversi e lontani tra loro, siano in realtà strettamente legati per il personaggio, che insiste sull’importanza della battaglia di Roma, la sola ragione per la quale la città di Roma meriti d’essere menzionata nel Ventesimo secolo, avendo (del resto) rappresentato il solo avvenimento d’effettiva importanza nella vita dei romani di queste generazioni, non potendosi considerare tali le apparizioni al balcone del truce-ridicolo personaggio modello e promotore d’imbecillità nazionale (pp. 61- 62); che si arrabbia e si dispera per gli effetti devastanti e crudeli della guerra: lo scopo reale della guerra sia di sterminare la gioventù, fisicamente ed anche (risultato questo raggiunto al massimo grado) moralmente, trasformando moltissimi dei corpi sopravvissuti in membra mutilate e le anime in semplici ricettacoli d’angoscia (p. 90).

Libretto leggero nel formato, pesante come un macigno nel significato. Più lieve, invece, La visione (Sellerio, Palermo, 1996, pp. 101): Già da molto tempo prima di essere come ora è, seduto immobile, non andava più ai concerti di musica sinfonica o da camera perché, dice, ai concerti gli veniva da piangere. La musica lo faceva piangere, prima o poi gli veniva il nodo alla gola e cominciavano a scivolare giù per le gote le lacrime (p. 11). Inizia così una dichiarazione d’amore per la musica, fatta da un personaggio (anch’esso una terza persona anonima e mai ben descritta) che si presenta come un grande dotto costretto all’immobilità su una carrozzina. Ecco che tornano i temi della morte (sino al tragico finale), della solitudine e dello studio appassionato. La visione annunciata nel titolo riguarda, ovviamente, la musica: il protagonista, nelle sue lunghissime meditazioni giornaliere, unica occupazione di quel corpo immobile che ha mantenuto intatta la capacità intellettuale, vede davanti ai suoi occhi una scena successa in un luogo e in un tempo ben lontani da lui, vede Franz Joseph Haydn, proprio il grande musicista, nel momento in cui riceve la lettera che gli annuncia la morte di Mozart. Da qui, oltre a riflessioni tragicamente comiche sulla sua situazione di infermo uomo universalmente stimato e rispettato (prima della paralisi, naturalmente) (p. 31), il personaggio spiega il suo pensiero sulla similitudine tra la musica e l’amicizia: l’amicizia e la musica sono simili, anche se dimostrare una cosa del genere per via razionale sarebbe ridicolo, tutt’al più si potrebbe osservare un’ovvia somiglianza, che dell’amicizia come della musica è, appunto, impossibile fornire una definizione soddisfacente (p. 54). Entrambe, nel libro, portano i personaggi, l’intellettuale paralitico e il musicista Haydn, a sognare e a commuoversi sino alle lacrime, in un movimento ipnotico e seducente del tempo che si dilata e si insinua nella vita reale del protagonista, prima e dopo la grave malattia, e nel passato grandioso di maestri musicisti.

La sosta (Sellerio, Palermo, 1997, pp. 94), infine, riprende ed ingigantisce il flusso di coscienza che già ha caratterizzato i due romanzi precedenti, e nel giro di poche pagine l’autore-protagonista (ancora una volta un intellettuale non meglio definito, ma sempre così simile all’autore) passa in rassegna un gran numero di argomenti, legandoli tra loro come solo una mente lasciata libera di vagare riesce a fare. L’occasione per queste riflessioni è una pausa imprevista nel tragitto quotidiano che il personaggio compie sulla tratta ferroviaria Roma – Firenze. Inaspettatamente, il treno è costretto ad una sosta a Chiusi, cittadina famosa per le urne funerarie del suo Museo Civico, e lì il dotto passeggero, stanco dei discorsi superficiali ed ipocriti dei suoi compagni di viaggio, decide di scendere, ricordando soltanto in un secondo momento, quando rimane solo sul marciapiede della stazione, di essere già stato, in un fumoso passato, in quel paese. I pensieri vanno dalle urne del Museo alle guerre, tutte le guerre, e poi alla battaglia di Roma del 44 (immancabile in tutti e tre i romanzi di Ferrara), sino alla remota battaglia del lago Trasimeno, e da lì a Catullo, Saffo, agli eroi romani e greci, e si disperdono e si ritrovano arrivando al suicidio di un amico, e dal ricordo dell’amico iniziano lunghe riflessioni sulla democrazia, sull’amicizia, sulla solitudine e sulla morte. Sono argomenti apparentemente lontanissimi tra loro, ma nella mente del personaggio si intersecano con l’aiuto di Hegel, una citazione del quale si ritrova ad inizio libro, Socrate, Platone, Kant e anche un po’ di psicoanalisi. Dei tre testi, La sosta risulta forse il più difficile da seguire, breve ma zeppo di passaggi improvvisi da un ragionamento all’altro, eppure è curiosa l’impressione che si tratti sempre dello stesso libro, sembra di accompagnare sempre lo stesso dotto personaggio dal ricordo dei tre momenti salienti della sua vita alla commozione per la visione di Haydn, sino a quando risale sul treno pensando a tutti i fatti e personaggi passati: perché mai, rifletteva mormorando tra se’, si vive quando quasi tutti al mondo sono morti, perché mai (p. 94).