Scianna alla “Casa dei tre oci”

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Ampia retrospettiva dedicata al fotografo di Bagheria

di Michele De Luca

 

A distanza di due anni Ferdinando Scianna (Bagheria, 1943) torna alla Casa dei Tre Oci all’Isola della Giudecca a Venezia dopo la sua mostra “Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo”. Allora, a cavallo tra il 2016 e 2017, il fotografo siciliano, aveva realizzato un reportage fotografico sulla vita quotidiana del Ghetto, sui personaggi che ne percorrono le calli, sulle architetture, pubbliche e private, fornendone un’asciutta narrazione della sua dimensione contemporanea.

Scianna è tornato ora ai Tre Oci con una bella e ampia retrospettiva curata da Denis Curti, Paola Bergna e Alberto Bianda (art director), e organizzata da Civita Mostre e Musei e Civita Tre Venezie e promossa da Fondazione di Venezia, che ripercorre oltre mezzo secolo della sua carriera, attraverso centottanta opere in bianco e nero, divise in tre grandi temi, “Viaggio, Racconto, Memoria” (catalogo Marsilio). Per l’occasione, è esposta una serie d’immagini di moda che Scianna ha realizzato a Venezia come testimonianza del suo forte legame con la città lagunare. Da questo percorso espositivo viene fuori tutta la coerenza e la potenza del suo sterminato repertorio fotografico, della sua sete inesauribile di allargare gli orizzonti dello sguardo, del suo intendere e praticare la narrazione per immagini. Dotato di grande autoironia, Scianna ha scelto un testo di Giorgio Manganelli per sintetizzare questa sua mostra: “Una antologia è una legittima strage, una carneficina vista con favore dalle autorità civili e religiose. Una pulita operazione di sbranare i libri che vanno per il mondo sotto il nome dell’autore per ricavarne uno stufato, un timballo, uno spezzatino”.

“Come fotografo – ha detto Scianna, parlando del suo lavoro – mi considero un reporter. Come reporter il mio riferimento fondamentale è quello del mio maestro per eccellenza, Henri Cartier-Bresson, per il quale il fotografo deve ambire ad essere un testimone invisibile, che mai interviene per modificare il mondo e gli istanti che della realtà legge e interpreta”. Ciò, però, non vuol dire “neutralità” dello sguardo fotografico; scrivendo del fotografo siciliano, in una meravigliosa monografia a lui dedicata, pubblicata da Art& di Udine nel 1989, quando era appena quarantacinquenne, Manuel Vàsquez Montalban affermava: “L’occhio sceglie un frammento del mondo, secondo una luce che trasforma la materia, non solo la compone, e secondo uno stato d’animo legittimo seppur controllato dall’istante tecnico, tutta la tecnica in un istante e in quello sguardo tutta una vita, tutta una cultura, persino tutto un progetto individuale o collettivo. Lo scrittore pensa e scrive. Il fotografo pensa mentre fotografa e perciò ogni foto è un pensiero”. E’ nelle città, prosegue lo scrittore catalano, “che lo sguardo di Scianna cattura i disordini e le sue fotografie diventano metafore. New York è due automobili, una come uno scarafaggio schiacciato all’ombra di un ponte e l’altra un perfetto atleta articolato nella contestuale paura di una strada in fuga e di un negro probabilmente anch’egli in fuga. O quel palazzo natura morta, sub razionalismo architettonico per poveri in scatola da cui, improvvisamente, spunta la figura umana. E a Parigi, un Belmondo-Lautrec da metropolitana e postubriaco, la testa fluviale in un rettangolo di barcine, due bicchieri che brindano in onore della miseria, una sedia (anch’essa del periodo tra due guerre) assassinata in un angolo sotterraneo”. “Fotografo il disordine – ammette Scianna – e per coglierlo mi devo aiutare con il letterario, il letterario è qualcosa di più della letteratura in senso stretto, ma la fotografia ha bisogno di letterario”.

Fondamentale per l’inizio della splendida carriera e della crescita personale di Scianna fu l’incontro, nel 1963, con Leonardo Sciascia, con il quale a soli ventun’anni pubblicò il saggio Feste Religiose in Sicilia, libro che ottenne il prestigioso Premio Nadar. Il volume creò molte polemiche, soprattutto a causa dei testi di Sciascia, che mostra l’essenza materialistica delle feste religiose, ma decisivo e illuminante fu l’impatto che ebbero le sue foto; “La fotografia – ricorda ora – era la possibilità del racconto di una vicenda umana. Questo il mio maestro mi fece capire, e mi introdusse ad una certa maniera di vedere le cose, di leggere, di pensare, di situarsi nei confronti del mondo”. Da allora, dall’immediato successo che incontrò il suo lavoro, il fotografo di Bagheria, da sempre, nella sua lunga, intensa e appassionata carriera riesce a far emergere dalle sue immagini la condizione emblematica della vita dell’uomo del nostro tempo; il suo lungo percorso artistico si snoda attraverso varie tematiche – l’attualità, la guerra, il viaggio, la religiosità popolare – tutte legate da un unico filo conduttore: la costante ricerca di una forma nel caos della vita. Del resto, dice il fotografo, “il mondo è assurdo, il mondo è ambiguo, tu sei ambiguo e assurdo in questo mondo. Non c’è altro da fare per rendere conto della tua relazione al mondo che tentare di mettere in forma questa assurdità, ciascuno con il suo strumento”. In vena di consuntivi ci ha detto: “Non sono più sicuro (una volta lo ero) che si possa migliorare il mondo con una fotografia. Rimango convinto, però, del fatto che le cattive fotografie lo peggiorano”.

Foto:

Ferdinando Scianna Marpessa Caltagirone 1987 © Ferdinando Scianna Magnum Photos