Scrivere di storia

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Intervista a Raoul Pupo

di Gabriella Ziani

In Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza (Laterza 2021), l’ultimo libro pubblicato, racconta una sconvolgente trama e gamma di lotte e guerriglie incrociate tra prima e seconda guerra mondiale su questo confine orientale sconvolto nel ‘900 da mille orrori, ma prima ce ne sono molti altri, tra cui Foibe con Roberto Spazzali (Bruno Mondadori 2003), Il lungo esodo (Rizzoli 2005), Trieste ’45 (Laterza 2010), Fiume città di passione (Laterza 2018): “da piccolo” Raoul Pupo non sognava d’immergersi come storico nei più drammatici eventi di Trieste e del territorio, ma ne è diventato un eccellente studioso e interprete. Nato a Trieste nel 1952, docente di Storia contemporanea alla facoltà di Scienze politiche fino a un anno fa, una moglie già docente di storia medioevale, un figlio, è corteggiato dalle case editrici e ospite frequente di Paolo Mieli a Passato e presente su Raistoria. Ma chi è veramente, oltre le nobili tende di autore? Ecco un po’ di “storia dello storico”.

Chi sta dietro questa mole di studi storici, dietro il nome Raoul Pupo?

Il cognome è marchigiano, nonni paterni di Fabriano. Il nonno, ferroviere, come ai tempi accadeva fu trasferito al Nord, a Gorizia, a Udine e infine a Trieste. Ferrovieri anche i nonni materni, e pure i genitori. Per me il treno rappresenta casa.

La passione per la storia quando nasce?

Con Carlo Schiffrer, mio professore alle medie inferiori. Una fulminazione. Del resto ho avuto solo ottimi maestri. Alla facoltà di Filosofia, indirizzo storico, ho avuto Miccoli, Collotti, Apih, Sala. Mi hanno insegnato il metodo, che è la cosa fondamentale. Con alcuni di loro non andavo affatto d’accordo sui contenuti (non sono mai stato uno storico marxista) ma è stato abbastanza irrilevante, perché mi hanno sempre trattato con il massimo rispetto a prescindere dalle idee. Enzo Collotti è mancato da poco, e lo ricorderò sempre con grandissimo affetto.

Non marxista: democristiano. Anche segretario provinciale della Dc. Come andò?

Facendo politica non ho combinato un granché, ma ho fatto un’esperienza fondamentale, quella di un partito di massa (la Dc appunto), collegato a un movimento di massa (quello cattolico), relitti di una società di massa che stava svanendo. Così ho potuto sperimentare la militanza politica, quella strana spinta che non riesco a spiegare ai miei studenti e che muoveva un numero oggi impensabile di persone a rinunciare al tempo libero per dedicarsi a una causa ritenuta prioritaria rispetto agli interessi individuali. Lo so che adesso sembra di parlare di un altro mondo e non è che non vedessi il diffondersi della corruzione (non però a Trieste), ma so anche che era dato del tutto per scontato che amministratori e dirigenti del partito ipotecassero la casa per garantire i mutui a copertura dei debiti del partito…

Questa militanza com’era vista negli ambienti culturali dell’epoca?

Io ho trovato l’ambiente migliore per le mie ricerche nell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione (ora storia della resistenza e dell’età contemporanea). Anche lì, per molti anni sono stato la “mosca bianca”, guardato all’inizio un po’ come un marziano, ma ciò non mi ha impedito di diventarne anche presidente e, soprattutto, di stringere amicizie importanti, che mi hanno dato moltissimo sul piano scientifico, mi allietano la vita, o sono ben vive nel ricordo, come quella con il vecchio direttore, Sergio Zucca, mancato un anno fa.

Poi si è messo subito a dissodare le storie di confine?

No, per niente. Mi occupavo di politica estera, volevo uscire dal localismo, studiavo fonti inglesi e americane, sono andato in Inghilterra… Il tema delle foibe non l’ho mai voluto affrontare. Tutti ne parlavano, io sono scappato il più lontano possibile.

E chi le fece cambiare rotta?

Negli anni ’90, dopo il “ribalton” jugoslavo, sono emersi temi nuovi, sul comunismo, sulla Jugoslavia stessa, ma se ne parlava in termini strumentali, era un pretesto per riattizzare i conflitti. Un rischio molto forte. Mi sono detto: cerchiamo di capire.

Cose spinose, sarà stato impegnativo.

Ma per niente. Facilissimo. Le informazioni note dicevano già tutto al 90%, quel che mancava erano le interpretazioni. Abbiamo cominciato a ragionarci in quattro, ognuno per sè: io, Roberto Spazzali, Giampaolo Valdevit e a Lubiana Nevenka Troha (che ha messo a disposizione le sue fonti). Quando ci siamo confrontati, eravamo arrivati tutti alle stesse conclusioni, e abbiamo fatto un libro assieme. In seguito Foibe, a firma mia e di Spazzali, ne è stata la ricaduta didattica. Nel frattempo per iniziativa dei governi erano state attivate la Commissione italo-slovena e quella italo-croata, con lo scopo di armonizzare le storie separate, io entrai nella prima quando Fulvio Tomizza dovette ritirarsi. Con gli sloveni funzionò, ancora oggi la collaborazione con gli storici è altissima, la commissione croata non si riunì mai, il risultato fu nullo, e tuttora scontiamo le conseguenze.

Il senso di questo lavoro, e i punti cardine della nuova lettura dei fatti?

C’erano narrazioni spezzate: quella italiana, quella jugoslava. Abbiamo messo da parte entrambe. Per una ricostruzione non “condivisa”, ma rigorosa. La parte meno difficile furono proprio le foibe, i testi combaciavano. Il punto focale: le foibe non erano state né un genocidio degli italiani, né una punizione dei colpevoli (fascisti). Erano state una violenza di Stato. Diretta all’eliminazione dei “nemici del popolo”, come era accaduto anche nel resto della Slovenia e della Croazia. Noi qui si vedeva solo Trieste e l’Istria, ma il fenomeno riguardava tutti i territori “liberati” dai tedeschi. Si calcola che gli sloveni abbiano fatto fuori 10-12 mila persone, i croati da 60 mila in su. Nella Venezia Giulia i nemici erano gli italiani. Numeri esatti non se ne possono fare, possiamo solo stabilire l’ordine di grandezza: alcune migliaia. La differenza la fa il numero di zeri. Foibe, esodo: dietro c’era il medesimo disegno.

Un disegno che prima non si voleva, o non si poteva vedere?

La seconda grande acquisizione della Commissione fu che bisognava rompere quella linea di consequenzialità su cui si basava la narrazione sia della Jugoslavia e sia della sinistra italiana, e cioè che la storia cominciasse col fascismo. Il fascismo commette crimini, da cui le foibe come risposta. Un meccanismo lineare di causa-effetto. Il meccanismo, in Commissione, è saltato. Vennero in luce tante novità. Innanzitutto dopo la guerra erano cambiati il contesto e i protagonisti, che seguivano logiche proprie. Il Movimento di liberazione jugoslavo era un soggetto politico molto forte, decisamente comunista, cresciuto in una cultura della violenza. Una violenza maturata con la rivoluzione bolscevica, la guerra civile spagnola, e che si esprimeva con una propria pratica di lotta. Lotta non solo per la liberazione dal nazifascismo, ma per una rivoluzione che instaurasse lo stato totalitario.

Il quadro è di un tutti contro tutti, e Adriatico amarissimo ha per sottotitolo Una lunga storia di violenza, che lei fa andare dal 1915 al secondo dopoguerra. Scrive «galleria degli orrori», elencando evirazioni, teste issate sulle picche, villaggi incendiati «anche solo per far festa», civili inermi fucilati, campi di detenzione, stupri, saccheggi, torture, stragismo, efferatezze… Come si può davvero capire?

In certe situazioni, e avendo certi comandi, anche le brave persone possono cadere in una sorta di scissione della personalità e scatenare quanto di peggio hanno in sè. È la banalità del male. I veri mostri sono pochi. Ma la violenza è solo una parte della storia, sulle terre di confine però ha caratterizzato gli eventi più che altrove, e lì si è concentrata l’attenzione dei commentatori, da qui le strumentalizzazioni. D’altro canto i lati positivi si trasformano facilmente in retorica… I miti sono più rassicuranti, ma a volte anche questi sono fonte di disastri spaventosi.

Come i nazisti, anche gli italiani in Slovenia e Croazia minacciavano di uccidere 10 ostaggi per un morto, ma il generale Alessandro Pirzio Biroli in Montenegro stabilì 50 per uno, se era un ufficiale. Peggio dei tedeschi.

Sì, il comportamento degli italiani fu simile a quello dei tedeschi. E Pirzio Biroli diede un ordine più duro dei nazisti. Non si sa però se lo mise in pratica. Quello di 10 per uno certamente sì.

La rabbia dei vinti di Robert Gerwarth (Laterza) descrive l’impressionante catastrofe di esodi, morti e violenze che nell’Europa centro-orientale e nei Balcani nel primo dopoguerra fece più morti della guerra stessa. Ma qui niente se ne sa.

È uno studio durato 10-15 anni, e dimostra come i terribili drammi delle nostre terre vanno inseriti nel contesto storico centro-orientale, nulla hanno a che fare con la storia d’Italia, e invece vengono guardati da questa angolazione, e pertanto non si capiscono, ed è vero, non c’è consapevolezza di quella storia. Qui nel ’43 le logiche della storia italiana spariscono. L’occupazione tedesca avviene nei termini in cui era stata fatta nell’Europa orientale, pensiamo solo all’arrivo dei Cosacchi, all’unico “campo di morte” in Italia, in Risiera. Nel ’45 prevalgono invece le logiche del Movimento di liberazione jugoslavo. Che cosa se ne può capire nel resto d’Italia? Sembrano cose dell’altro mondo.

Per non parlare di esodo ed esuli, un altro tema spinoso.

Anche questo fenomeno si collega alle vicende dell’Europa centro-orientale. Contestualizzare aiuta a capire. In primo luogo che “esodo” è un termine tecnico, indica un particolare tipo di spostamento forzato: non è deportazione, non è espulsione, ma la conseguenza della creazione di situazioni ambientali che costringono i membri di un gruppo ad andare via. Il primo caso risale alla Crimea dell’800: ci vivevano i Circassi, di lingua turca e religione musulmana. Arrivano i russi, impongono il russo e l’ortodossia. I Circassi sono costretti ad andarsene.

Certi ambienti insistono: pulizia etnica.

Un equivoco. Il termine è preso dalla lingua inglese, dove indica la cancellazione di identità nazionali nell’Europa centro-orientale. L’inglese non distingue però tra “etnia” e “nazione”, che sono due concezioni diverse. La prima è di derivazione tedesca (sei nato in Germania, sei tedesco), la seconda è francese, basata sulla volontarietà di aderire a una nazione, e quella italiana è del secondo tipo. Forse che Stuparich, Slataper, erano italiani etnici? No, erano italiani per nazionalità. Dire che in Istria vi fu “pulizia etnica” è perfino riduzionista. Ti occupi della metà che è andata via, ma gli altri? La formula alternativa è “sostituzione nazionale”: una presenza nazionale sparisce o è ridotta al minimo, il vuoto viene riempito da altri.

Lei ha detto che le forze sovraniste hanno fatto un «uso sguaiato e sciagurato» del Giorno della memoria.

Coi governi dei centrodestra, quando veniva censurato chi non parlava di “pulizia etnica”. Poi c’è stato l’incontro dei presidenti Mattarella e Pahor alla Foiba di Basovizza nel 2020, le cose sono cambiate. I gesti simbolici indicano la via. Purtroppo qui è avvenuto molto tardi, e l’abbiamo pagato. Non si tratta di creare “memoria condivisa”, ognuno ha la propria, ma “pacificazione”. La storia non sono le memorie, sempre parziali. È sbagliato far spiegare la Resistenza all’Anpi, e l’esodo agli esodati. Ingiusto chiederglielo, ingiusto che lo pretendano.

Lei ha subito contestazioni?

Come no. Politiche. Non mi hanno tagliato le gomme, ma perché non guido la macchina…

Nei “ringraziamenti” appaiono sua moglie come generosa autrice di dolcetti per alleviarle le fatiche autoriali, e il fatto che lei scrive «coi piedi»…

Ah, sì, mia moglie mi vizia e io scrivo coi piedi. Camminando in montagna le idee vengono da sole. Una passeggiata mi dona due-tre settimane di lavoro. Le cose migliori le ho pensate tra Moso e Sesto in Val Pusteria… Adriatico amarissimo l’ho scritto praticamente a memoria, il più difficile è stato Fiume, mi è stato commissionato, ho dovuto studiare tanto. Ma scrivere mi piace, perché mi piace comunicare. Studiare solo per me stesso non avrebbe senso.

Fresco di pensione, lei è stato docente di Storia contemporanea a Scienze politiche, ma è vero che non ha avuto subito una cattedra?

Non c’erano concorsi. Prima ho lavorato in una segreteria scolastica, e ne sono contentissimo: ho visto quel che fa la macchina dell’istruzione per gestire questi pazzi e imbranati di insegnanti, da allora sono molto solidale con il personale amministrativo. Poi ho insegnato al “Carducci”, palestra fondamentale, mi ha insegnato a insegnare: la didattica s’impara solo a scuola, lì capisci che devi riuscire a farti capire.

Uno sforzo che dichiara al lettore apertamente, oggi.

Sì, ho dovuto disimparare e imparare. All’Università si è addestrati a scrivere in modo complicato. Mi ricordo benissimo la mia svolta. Ero a Torino a un seminario sulla storia del confine orientale. Dopo aver ascoltato due relazioni pallosissime, mi son detto: basta. E quando è toccato a me ho cominciato a raccontare in modo semplice. Ho visto quanto fosse apprezzato. E allora, proviamo anche a scrivere. In Trieste ‘45 ho cambiato ancora, usando il presente storico, cosa difficilissima, agli studenti lo sconsiglio vivamente, ma è un modo di scrivere “dalla parte del lettore”. Nelle conclusioni però uso lo stile accademico, tanto per dire ai colleghi “lo so ben fare anch’io”.

Esistono ancora archivi inaccessibili?

Ma certo. Per esempio le fonti diplomatiche italiane dagli anni ’50 in poi, comprese quelle sul Trattato di Osimo, non sono consultabili. Ma mica sono secretate: non sono messe a posto, mancano archivisti. Molte carte scomode sono state distrutte. Sulla strage di Vergarolla, per dire, non si trova niente…

Che dire della “cancel culture”, revisione dei simboli storici?

Per carità, uno storico ha un senso di rivolta. È un’ondata di iconoclastia. Se ci sono simboli che diventano odiosi, mettiamoli in un museo. Chi distrugge le statue di Cristoforo Colombo si comporta come i talebani coi Buddha.

A che cosa lavora adesso?

Sta per uscire la seconda edizione, integrata, di Storia di un esodo da Rizzoli. Ma soprattutto con l’Istituto nazionale Parri, quello per la storia della Resistenza di Trieste, la sezione storica della Biblioteca slovena, il dipartimento di Scienze politiche, la Società di studi fiumani e l’Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei di Gorizia stiamo creando una mostra virtuale sul confine orientale, allestita in concreto a Rimini dieci anni fa: 32 pannelli, da fine ‘800 fino all’incontro dei presidenti a Basovizza, più documenti didattici, link a prodotti multimediali creati da noi, il sito Regione Storia Fvg è già attivo, vi collaborano gratuitamente dieci colleghi di tutta Italia, con collegamenti al corso di Storia della Venezia Giulia: 90 ore a disposizione. E poi? Poi ci penserò.

Raoul Pupo

Adriatico amarissimo

Laterza, Bari-Roma 2021

pp. 320, euro 20.00