Solo per ringraziare

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La bella vita del critico d’arte (parte quinta)

Federico De Rocco era stato il maestro di pittura di Pasolini

di Giancarlo Pauletto

 

Con Pasolini ho avuto a che fare anche come critico d’arte – oltre che come lettore di libri e spettatore di cinema, naturalmente.

Né mi sento di passar sotto silenzio il modo con cui venni per la prima volta in contatto con la sua figura, dato che il merito fu, ancora una volta, del mio maggior fratello, il pittore.

Il quale nel 1950 aveva acquistato – dopo i Quaderni dal carcere di Gramsci – anche la famosa (non allora) Antologia della poesia italiana 1909-49 di Giacinto Spagnoletti, al penultimo posto  della quale, seguito da Alda Merini all’ultimo, c’era il giovane Pasolini con il poemetto, allora inedito, L’Italia.

L’antologia mi capitò in mano in prima liceo. Ne fui preso, non solo perché v’incontrai Arsenio e i celebri “corimbi” di Montale, ma anche perché vidi citati nei versi di Pasolini luoghi e paesi del mio territorio, il Tagliamento e il Livenza, Casarsa e Pordenone, Portogruaro e Caorle, Palazzolo e Palmanova, Teglio Veneto e Sesto al Reghena, Cordovado, Ramuscello, Gleris, questi tre ultimi nel primo verso della meravigliosa ultima strofa della composizione: «Tornerà a Cordovado, a Ramuscello, a Gleris/ il mattino di una domenica di primavera!/ E sulla polvere della strada tra i fossi/ dove rosa e verdi splendono le anitre al sole,/ i giovinetti vestiti con le bluse materne/ e i capelli pettinati al suono delle campane,/ andranno a Messa abbracciati incantando il vento/ appena vivo tra i salici e le viole».

Non ero, allora, in grado di spiegare l’emozione che mi proveniva da quei versi, e poco lo sono anche oggi; né da quell’altro, bellissimo, che si trova subito dopo l’inizio del poemetto: «A Portogruaro fischia un treno, amaro»: fatto proprio sulla stazione della mia città, che diventava improvvisamente, con mia grande sorpresa, un luogo poetico.

Nacque così l’ interesse per la complessa figura di Pasolini, attorno a cui riferirò, naturalmente, solo in relazione alle quattro mostre d’arte che mi venne fatto di organizzare con rapporto alla sua opera non solo di poeta, ma anche di pittore.

 

Nel 1978 Giuseppe Zigaina aveva raccolto, in una pubblicazione edita da Vanni Scheiwiller, tutte le pitture e i disegni di Pasolini che aveva potuto ritrovare.

Il catalogo, prefato da Giulio Carlo Argan e Mario De Micheli, rivelava in sostanza che Pasolini aveva certamente istinto di pittore, ma un istinto che non era stato sviluppato quanto possibile, perché era prevalsa infine la necessità della scrittura, e poi del cinema.

A me capitò, nell’autunno del 1983, di poter aggiungere alcuni numeri a questo catalogo.

Avevo suggerito al Centro di Pordenone e al Comune di San Vito la possibilità di una mostra che indagasse il disegno di Federico De Rocco, assai valente pittore di San Vito al Tagliamento, amico di Pasolini negli anni friulani: e infatti il poeta aveva più volte scritto su di lui, e presentato anche due mostre in catalogo, una nel 1954 a Portogruaro e una nel 1959, questa volta non con un testo in prosa, ma con una bellissima poesia che era anche una vera interpretazione della sua pittura, e che vale assolutamente la pena rileggere: «Il tuo colore: sogno d’una pura/ e squisita nazione, tono preesistente,/ che ai magici angoli della tua natura,/ margini d’una provincia muta e  ardente,// muto e ardente, tu stendi – per tenace/ scelta o modesta onestà? – là dove/ la lingua è ormai dialetto, e tace/ il dialetto, tra macchie d’alni e roveri,// annose rogge e assolati casali. La grazia è resa, umiltà la fatica,/ l’assoluto un intenso vibrare di fondali/ dietro le fresche immagini di una vecchia vita”.

Si tratta di una poesia che è anche – per chi conosca la pittura di De Rocco – una precisa lettura critica: pittura che vuole rendere “assoluto” il tono di una vita quotidiana che accomuna uomo, paese e natura, l’artigiano al lavoro, il contadino che affila la falce, il borgo che si allontana verso la campagna, il campo di calcio umido e verde tra case e alberi.

Una “vecchia vita”, insomma, che l’intensità poetica dell’artista rende in “fresche”, vibranti immagini.

Un’altra poesia, ancora bellissima, egli scrisse poi in morte del pittore, nel dicembre del 1962: «In treno, Rico…/ nella struttura di ferro di un povero frastuono,/ mi riappari, tu, senza vita futura, / e sei:/ il corpo di ferro battuto di un morente/ nel biancore pazzesco di una piazza a San Vito.// Pittura e gioventù!/ Comuni distese di vita nel passato/ nostro, ammassi ruggini e ammucchiati/ nelle meravigliose estati!/…».

La morte stroncava in giovane età – quarantaquattro anni – un uomo nel pieno del suo fervore, che aveva tra l’altro realizzato, nel 1947, un vivido ritratto del suo amico poeta.

Fu, questo lavoro sull’opera grafica di De Rocco, assai giusto, perché fece conoscere l’esistenza di oltre trecento disegni, molti dei quali preparatori per opere ad olio, e dunque assai utili per uno studio anche filologico della sua opera, che era sì conosciuta, ma certo non quanto meritava.

Durante la ricerca dei materiali da esporre aprimmo – Paolo De Rocco, figlio del pittore, ed io – una vecchia cassapanca fino a quel momento non esplorata.

Lì, oltre un certo numero di disegni d’accademia del padre, trovammo un rotolo di fogli, di varie dimensioni, che immediatamente riferimmo a Pasolini, per l’evidente affinità con quanto aveva fatto conoscere Zigaina.

Essi furono esposti una prima volta, a mia cura, in occasione della quinta edizione del Premio Pasolini di Poesia, a Casarsa, il primo luglio del 1985, e poi in varie altre circostanze, tra cui per una iniziativa che si tenne a Vienna nel 1991, seguita da Nico Naldini, il quale nel testo in catalogo riferiva quelle opere agli anni 1946/47 e spiegava che, con tutta probabilità, erano state realizzate nello studio di pittura che Federico De Rocco aveva presso un’aula della scuola di Avviamento professionale di San Vito al Tagliamento, dove era insegnante: ciò chiariva il fatto che fossero rimaste in suo possesso alla fine di quegli anni.

Peraltro De Rocco era stato il maestro di pittura di Pasolini: «Quanti segreti gli ha rivelato sull’uso dei colori, sulle tecniche miste, sui diluenti, sull’imprimitura della tela con varie combinazioni di colla e gesso. Un maestro affettuoso e modesto che non disapprovava mai gli sperimentalismi pittorici di Pasolini anche quando potevano rivelargli la provvisorietà del dilettantismo».

Così Naldini, nel suo testo per Vienna.

Ancora furono esposti, questi disegni e dipinti, nella grande rassegna di Villa Manin di Passariano del 1995, intitolata Pier Paolo Pasolini. Dai campi del Friuli.

Essi stavano al centro di uno spazio, sulle pareti del quale vivevano bellissime opere dei pittori friulani, di cui il poeta si era occupato nelle sue recensioni d’arte, scritte per vari giornali, negli anni tra il quarantacinque e il cinquanta.

Dico bellissime e poco conosciute: io sono esattamente dell’opinione del dottor Volker W. Feierabend, grande collezionista tedesco di arte italiana di cui ho letto qualche tempo fa su Il Sole 24 Ore: non seguire la corrente, «che vede curatori e galleristi proporre sempre gli stessi nomi».

Cercare altro, perché anche autori pressoché sconosciuti «possono fare dei capolavori».

Così è, infatti. Non ha senso che un’opera, mettiamo di Picasso, costi cinquanta milioni di euro, e un bellissimo quadro di Federico De Rocco – per restare su questo nome – cinquemila o meno.

Messe vicino, salta a occhio nudo che la qualità non giustifica assolutamente divari del genere, che allora saranno giustificati da altro: un altro che ha poco a che fare con l’arte e molto con l’idolatria, o la reliquia: fenomeni umani anche questi, certo, ma attinenti la religione, non l’arte.

La confusione, però, affascina molti, e a molti altri fa comodo per chiedere cifre impossibili su opere magari bellissime, ma fatte su questa terra, da uomini con due braccia, due gambe e, se sono fortunati, trentadue denti: esattamente come noi, che siamo gente qualunque.

E poi ricordo volentieri altre due mostre: l’Omaggio a Pasolini della primavera del 1995, ai Molini di Portogruaro, e Tal spieli da la roja. Poesia e immagini nella Destra Tagliamento durante gli anni ’40 e ’50, che fu preparata per Casarsa nel 2000, e poi ebbe qualche altra occasione, tra cui la Galleria del Girasole a Udine.

In tutte e due le iniziative mettevo a confronto Pasolini e i pittori di San Vito che lui conosceva bene, e dei quali aveva scritto in varie occasioni negli anni di quel favoloso dopoguerra: avevano respirato la stessa aria, visto gli stessi paesaggi, frequentato la stessa gente, magari ascoltata la fisarmonica alle stesse sagre, anche se, forse, non tutti avevano ballato nelle stesse balere.

Ma certamente avevano mangiato le stesse angurie che De Rocco aveva dipinto, e bevuto lo stesso rosso e lo stesso bianco che avevano – magari, qualcuno – aiutato a vendemmiare.

Impossibile che non vi fosse, tra il Poeta e i pittori, un’affinità lirico-narrativa che a me pare, in quelle due mostre, di aver ben rilevato.

Per la prima avevo stampato, molto in grande, tutti i capitoli del poemetto l’Italia, e li avevo distesi sulle pareti di ambedue i Molini di Portogruaro in cui si teneva la mostra. Accanto a quelle strofe avevo collocato opere di Italo Michieli, Virgilio Tramontin, Angelo Variola, Luigi Zuccheri, Augusto Culòs, Federico De Rocco.

Opere degli anni tra il ’45 e il ’50, che sono quelli del poemetto, e spesso arieggianti gli stessi temi, i paesaggi, le sagre, le anatre nei fossi, le messe domenicali, gli uccelli, i campi, le rogge, i boschetti di robinie, il mercato, Caorle, Portogruaro e Venezia, il Livenza e il Tagliamento.

E scrivevo, nel testo in catalogo: «è ben vero che ogni artista è se stesso: ma sono, poi, tutti uomini, e tutti poeti, e hanno vissuto tra la stessa terra e lo stesso cielo: si potrà allora indulgere senza grave peccato a questi accostamenti tra artisti “nostri”. Nostri non nel senso di una loro riduzione al campanile, ci mancherebbe altro. Del resto la statura del poeta, e anche quella dei pittori, non lo permetterebbe in alcun modo: nostri perché, in realtà, noi siamo “loro”, noi possiamo, se vogliamo, profittare della loro cultura e della loro poesia, arricchirci attraverso di loro. E quindi, certo, renderli “nostri”, essere con loro poeticamente aperti alla vita e al mondo».

Parole che possono valere anche per l’altra mostra che ho ricordato, nella quale accostavo invece singole poesie e singoli brani di prosa di Pasolini a una serie di disegni e, nel caso di Tramontin, di incisioni che sembravano fatti apposta per commentare quelle poesie, quei brani.

Così ai versi di Ploja tai cunfins – Fantassút, al plòuf il Seil/ tai spolèrs dal to país,/ tal to vis di rosa e mèil/ pluvisín al nas il mèis… – veniva accostato, di Italo Michieli, il ritrattino a matita di un ragazzo di sette, otto anni, miracolosamente colto nella totale, indifesa, un po’ intimorita verità della sua presenza, e al Testamet Coran il Partigiano impiccato di De Rocco, una china stupenda, che traduceva immediatamente, e con la stessa secchezza tragica, i due versi: «Dopo tre dis a me àn piciàt/ in tal moràr de l’osteria».

Insomma, ho fatto quel che ho potuto per la conoscenza di fatti di cultura, che mi sono sempre sembrati e ancora mi sembrano essenziali non solo per questo territorio tra Friuli e Veneto.

 

 

Federico De Rocco

Case del vecchio Castello

olio su tela, 1949