Solo per ringraziare

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La bella vita del critico d’arte (parte sesta)

Augusto Culòs, nato in una famiglia poverissima, che si fece artista e Angelo Variola, approdato all’arte soltanto quarantenne

di Giancarlo Pauletto

 

Alla fine degli anni ’70, mi pare nel 1979, Angelo Battel, allora bibliotecario in San Vito al Tagliamento, mi coinvolse in due iniziative culturali importanti, la mostra antologica del pittore Augusto Culòs, che era scomparso nel 1975, e poi la rievocazione di una rassegna d’arte del 1947, che a suo tempo era stata organizzata dalla Società Operaia di San Vito e presentata da Pier Paolo Pasolini.

L’antologica di Culòs mi immerse nella commovente vicenda di un pittore nato in una poverissima famiglia di braccianti, che a forza di volontà e di studio diventa “artista”, acquisisce cioè uno status allora impensabile per una persona proveniente dal suo ceto sociale, tra difficoltà grandissime, ben testimoniate da brani di lettera come questi: «All’accademia non trovo difficoltà di sorta… la mia più grande rivale è non possedere soldi»; «Vorrei essere tra voi per dividere insieme la disperazione e la miseria che ci ha colpiti fortemente… vi tengo miei genitori sacri, e dico sacri senza esagerare un filo»; «Ricordati, o mamma, di mangiare a sufficienza, non temere per i debiti, io sarò, che li farò scomparire come Gesù fece scomparire l’eresia».

Questo giovane, negli anni a cavallo del 1930 – era nato nel 1903 – è, anche nel disegno, tra i più moderni artisti che operano in Friuli, avendo del tutto superato il bozzettismo tardo ottocentesco ancora molto presente in regione, e certo sulla scorta degli insegnamenti di Guidi, che aveva maestro a Venezia.

La sua pittura ruvida, spesso diseguale e sommaria ma nei quadri migliori – che sono soprattutto ritratti – intensa e potente, anticipava d’altro canto quell’attenzione alla realtà e alla vita degli umili, che avrà il suo momento col realismo del dopoguerra.

Anche l’idea di rievocare la mostra del 1947 fu piena di senso, perché voleva riscoprire un momento importante della rinascita, sociale e culturale, di San Vito nel primo dopoguerra.

Erano i tempi del Sogno di una cosa, e fu appunto Pasolini a introdurre la mostra, con parole che, almeno in parte, vanno citate, per riassaporarne la giustezza e l’efficacia comunicativa: «[…] Qui siamo in piena provincia, ed è qui, più che nei grandi centri, che si misura il livello di civiltà di un popolo. Ora se per assurdo uno straniero capitasse tra noi, a questa vernice, immaginiamo che non potrebbe fare a meno di pensare a un probatorio indizio di una simile civiltà. Trenta espositori per la Mostra dell’Artigianato, e una decina per la Mostra dell’Arte, sono due cifre significative, sorprendenti per una cittadina come San Vito: chi avrebbe mai immaginato, di noi profani, che nei pigri meriggi e le lente mattine che avvolgono San Vito di una luce così candida e cruda che le linee dei suoi palazzotti veneti e dei suoi alberi sembrano segnate col bulino in un cielo di zinco, chi avrebbe mai immaginato un così vasto fervore di opere? Dalle volanti mani del falegname a quelle intente della ricamatrice, dalle sbrigative del fabbro a quelle puntigliose dell’intagliatore, un gran numero di mani artigiane dipana ogni giorno a San Vito il filo del benessere e della civiltà.

Accanto agli artigiani, gli artisti; e qui devo chiedervi con fermezza che mi si consenta di uscir dal generico, se non dalla richiesta di brevità… Un quadro è indubbiamente un oggetto inutile. Un letto bello serve per dormirci, una sedia bella, serve per sedersi, un armadio bello serve per riporvi le camicie: un quadro bello non serve a nulla.

Bene, non lo contesto.

Dirò che soltanto una società che si serve di un bello esorbitante dall’utile è una società di uomini e non di castori o di api».

Segue poi la rassegna dei singoli autori, per ognuno dei quali Pasolini conia una stoccata critica, che col senno di poi appare ancor più intatta e precisa, di quanto non sia per avventura apparsa al momento in cui fu detta.

Cercammo, per ricostruire la mostra d’arte, gli stessi quadri o quadri dello stesso momento, ed avemmo così davanti agli occhi, più di trent’anni dopo – e ne era passata, di acqua, sotto i ponti! – un “probatorio indizio” di civiltà: un gruppo di artisti che meritava indagare molto più di quanto, alla fine degli anni settanta, fossero stati indagati.

Non erano degli sconosciuti, naturalmente, basti dire che De Rocco, Tramontin, Variola e Zuccheri avevano partecipato, una o più volte, alla Biennale di Venezia, e a diverse altre importanti mostre nazionali e regionali, e avevano una bibliografia critica ricca di nomi importanti, dallo stesso Pasolini a Benco, Manzano, Bernardi, Valeri, Pallucchini, Venturoli, Puppi, Bartolini e vari altri.

Ma molta parte del loro lavoro era ancora largamente ignorata.

Di De Rocco Michieli e Culòs qualcosa ho già detto, degli altri sopra nominati mi occupai negli anni successivi, e fino a tempi recenti.

 

Il primo che mi avvenne di conoscere bene – e non solo attraverso esempi constatati in mostre di gruppo – fu Angelo Variola (Cordovado 1906-1979), che nella vita era imprenditore e si occupava di mulini.

Attirato dalla pittura in gioventù, poté dedicarvisi con impegno solo alla fine della seconda guerra, mentre il quadro più antico che gli si conosce è un calcolato, diligente paesaggio di Cordovado che risale al 1944, una pittura “preoccupata di non sbagliare” da cui si allontanò rapidamente, se già nel ’47 egli è autore di un fare largo, sintetico, ricco di cromatismi intensi e raffinati, alla fauve: che si replica durante gli anni fino al ’50, quando comincerà ad accogliere, sulla scorta di quanto accadeva a Venezia – i Pizzinato, i Vedova, i Santomaso, i Turcato – gli stilemi del postcubismo, come si vedrà nella personale alla Galleria del Cavallino del 1952.

Ma il suo valore era già stato riconosciuto nel 1948, quando la giuria di selezione – e non erano, allora, giurie che scherzavano – lo aveva accettato alla Biennale che fu, quell’anno, la Biennale del Fronte Nuovo delle arti.

Nel 1981, a due anni dalla morte, il Centro di Pordenone si era impegnato in un importante lavoro di consuntivo che voleva collocare Variola nella giusta, importante dimensione che gli spettava all’interno dell’arte veneta e friulana.

Ci recammo, Luciano Padovese ed io, nella grande casa di Cordovado, dove potemmo vedere tutto quello che era appeso ai muri, e conservato in altre stanze e nello studio.

Vedemmo molte opere bellissime, alcune delle quali poi non mi capitò più di rivedere, e fummo ammessi anche nella piccola camera dove il pittore dormiva dopo il terremoto del ’76.

Qui la sorpresa, del tutto insospettata: alle pareti, in piccole cornici, erano appesi una novantina di disegni a china, matita, pastello, acquarello che riassumevano, nel modo specifico dei lavori su carta, tutto il percorso estetico di Variola, dal momento postcubista all’astrattismo più deciso – con fogli riempiti di piccoli segni di varia origine, dal fitomorfo al biomorfo, tracciati con l’esclusiva intenzione di costruire un ritmo, una cadenza, insomma una sorta di musicale danza di forme – fino poi al ritorno alla sua tipica figurazione di oggetti, scanditi e depurati in spazi molto armonici.

A quel genere di esultanza astratta la pittura di Variola non era mai giunta, se non in qualche rarissimo esempio: comprendemmo subito che era necessario dedicare a quei disegni, modernissimi, in perfetta sintonia con determinate direzioni dell’astrattismo a metà degli anni cinquanta, una mostra apposita, che fu realizzata nell’agosto del 1980 nella Sala Capitolare dell’Abbazia di Sesto al Reghena.

Seguì, nel novembre dello stesso anno, la rassegna in Sala Aiace a Udine, introdotta in catalogo da Marcello Venturoli e infine, nell’aprile-maggio 1981, la più ampia mostra presso la Chiesa di San Francesco e il Museo Civico di Pordenone, corredata da un catalogo per così dire definitivo, con oltre cinquanta riproduzioni e, soprattutto, i dati tecnici di circa un migliaio di quadri, una produzione vasta se si pensa che l’artista aveva abbracciato decisamente la pittura solo alle soglie dei quarant’anni e che, naturalmente, doveva pensare anche al suo lavoro quotidiano.

A quell’elenco feci ricorso quando, nel 2006, cadendo il centenario della nascita, mi fu chiesto – a Cordovado, paese natale – di costruire una nuova antologica del pittore.

Puntammo subito sugli inediti, ampiamente testimoniati in quell’elenco.

Io e il presidente della Pro loco Lucio Leandrin – che molto mi aiutò nell’impresa – individuammo tutta una serie di collezionisti, uno specialmente, che ci permisero di esporre nella mostra molte opere mai viste e mai documentate, arricchendo così il catalogo di decine di inediti relativi a tutta la vicenda del pittore, ma particolarmente preziosi furono quelli degli anni quaranta, più lontani nel tempo e quindi più difficili da documentare.

Avemmo, durante la ricerca, ampia possibilità di scegliere, e fu appunto la selezione che ci permise di approntare un’esposizione di qualità molto elevata che, come la mostra di Pordenone, rendeva veramente onore all’arte di Variola, ricercata ovviamente nel meglio della sua produzione, ciò che, nel contemporaneo, vale non solo relativamente a lui, ma per ogni artista, anche ai livelli massimi, Chagall  o De Chirico, tanto per dire.

Nell’era della produzione e del mercato, quando un artista può produrre, tra oli, tempere, acquarelli, disegni, incisioni anche dieci, ventimila lavori e più, appare del tutto evidente che bisogna scegliere, se si vuole il meglio.

Che poi un brutto Chagall possa valere venti o trenta volte più di un bellissimo Variola, questo – come già si notava a proposito di De Rocco – appartiene al feticismo di chi compra, oltre che all’eventuale sua smania di “far l’affare”: chi ha pagato dieci quel che adesso vale uno o anche meno, sa cosa voglio dire.

Negli anni novanta, richiesto dalla famiglia del pittore, avevo preparato una scelta antologica negli spazi del Centro Friulano Arti Plastiche a Udine.

Erano per lo più opere note, paesaggi e nature morte ricche della sapienza costruttiva e della “solarità” tipica  dell’artista.

Elio Bartolini, estimatore della sua pittura, si presentò alla mostra una mezz’ora prima, per vedersela con calma.

Io, con un entusiasmo forse un po’ sopra le righe, commentavo e spiegavo le scelte e ad un certo punto affermai: «Sono tutti capolavori!».

Elio  mi guardò, sornione e tranquillo, e disse: «Si? Beh, adesso non esageriamo. Quasi tutti».

 

Angelo Variola

Natura morta con lampada

olio su tela, 1952