Troppo nero nel 1920

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In un romanzo storico di Marij Čuk Trieste nei giorni dell’incendio del Narodni dom

di Walter Chiereghin

 

Tra i significati della parola fiamma, uno riconduce alle mostrine colorate a due punte (a tre per la Cavalleria), che i militari italiani portano sul bavero della divisa come distintivo delle varie armi e specialità. Le fiamme nere identificarono durante il conflitto del ’15-18 i reparti degli Arditi, corpo speciale della Fanteria, i cui reduci confluirono in gran parte – ma non totalmente: vi furono anche gli Arditi del popolo, socialisti massimalisti –  nel nascente movimento fascista.

Le fiamme nere sul bavero dei reduci non sono quelle cui fa riferimento il nuovo romanzo di Marij Čuk, ma servono per introdurci al clima storico in cui esso è ambientato, quello di una città – Trieste – da pochi mesi conquistata dal Regno d’Italia, che viveva in un clima in qualche modo sospeso e conflittuale il rapido adeguarsi al nuovo assetto amministrativo e culturale, in un clima di tensione e di insofferenza per i gruppi etnici diversi da quello degli italiani, in particolare quelli di lingua tedesca, in gran parte costituiti da famiglie giunte in città in anni relativamente recenti, al seguito di funzionari e dirigenti dell’amministrazione pubblica o della finanza, e soprattutto di quelli di lingua slava, e in particolare degli sloveni che in città vivevano invece da secoli, avendo anche acquisito posizioni di rilievo nelle attività commerciali e finanziarie e impegnati a confermarsi in tali posizioni.

Il libro di Čuk, triestino di lingua e cultura slovena, si intitola difatti Črni obroč e viene ora pubblicato in italiano grazie alla traduzione, al solito scrupolosa e piacevolmente scorrevole, di Martina Clerici, col titolo appunto di Fiamme nere, che allude alle fiamme che avvolsero il Narodni dom il 13 luglio 1920, appiccate dagli squadristi di Francesco Giunta. Ecco spigato allora anche il colore di quelle fiamme: il nero caro alle simbologie necrofile dei fascisti, utilizzato anche nella elegante copertina quasi monocroma del volume in italiano, disegnata da Danilo Pahor.

L’opera di Marij Čuk è esplicitamente narrativa, con frequenti cedimenti al lirismo che spezzano a volte la tensione del racconto. Il libro, senza la presunzione di assumere le connotazioni di un saggio storico, ripercorre le cronache di quelle giornate di oltre un secolo fa, drammatiche e fatali, come si sono dimostrate in buona parte degli anni che ad esse sono seguiti, come sempre avviene per un crimine violento ingiustamente patito, da singoli o da comunità, che ingombra di sé, senza consentire oblii, un intervallo temporale scandito dal succedersi di diverse generazioni.

La storia narrata prende le mosse da una vicenda che più riservatamente privata non potrebbe essere: un assicuratore di Vienna, Otto von Helmut, progetta un breve viaggio di lavoro che deve portarlo a Trieste, curando tuttavia di lasciarsi qualche tempo per il turismo, in quanto il viaggio viene compiuto in compagnia dell’amante, Flora Schwarzkopf. Per i due, che non hanno mai visto il mare e men che meno Trieste, si preparava un breve ma intenso intervallo nelle consuetudini di clandestinità – e dunque di riservatezza e circospezione – che erano loro imposte nella capitale austriaca. Una suggestione aggiuntiva, inoltre, era la pace riconquistata, anche se «la guerra ha lasciato un’eredità problematica, molti strascichi dolorosi. Ma è una prerogativa di tutte le guerre, no? Trieste potrebbe fungere da modello per l’Europa intera, essere un laboratorio di uguaglianza e pacifica convivenza» (p. 12). La breve trasferta si preannuncia dunque attraente e non priva di emozionanti scoperte, come avviene difatti fin dal primo incontro con la distesa marina, dal finestrino di una carrozza della Ferrovia Meridionale, mentre «il treno scendeva dall’altipiano carsico verso la città, stesa ai margini della spianata marina che scintillava al chiaro di luna come un mare d’argento vivo» (p. 29).

Arrivati alla stazione, vengono condotti alla stanza prenotata per loro presso l’Hotel Balkan, ospitato nell’edificio polifunzionale del Narodni dom, il che, considerato che l’azione si svolge nel luglio del 1920, anticipa a grandi linee, anche al lettore meno avvertito, quanto verrà narrato nelle pagine seguenti.

I due amanti, dopo la prima notte nell’intimità della loro camera d’albergo, prendono possesso della città e di alcune delle sue cose più notevoli: un giro nella grande piazza aperta sul mare, una passeggiata sulle rive, guardando ammirati i piroscafi ormeggiati e percorrendo fino alla cima i moli, fermandovisi a inebriarsi col profumo del mare e con la visione spalancata sulla sua vastità nella giornata serena. Si tratta tuttavia di una serenità apparente e posticcia, dato che i due turisti avvertono attorno a sé, nei prudenti ammonimenti degli amici sloveni che suggeriscono loro dall’astenersi di parlare ad alta voce in pubblico, perché nemmeno la lingua tedesca è gradita in quanto improvvisamente i triestini «non se la cavano nemmeno con il tedesco, benché fino a un anno e mezzo [prima] lo conoscessero a menadito» (p. 46).

La vicenda si srotola verso il suo epilogo annunciato, com’è fatale che avvenga, mano a mano che la città viene perdendo progressivamente ogni attrattiva per i visitatori sempre più spaesati, e si fanno più pressanti le tensioni che si avvertono in molteplici occasioni, in particolare nei numerosi gruppi di teppaglia che si limitano ad aggredire verbalmente ogni persona che si esprime in una lingua diversa dalla loro. Quella che doveva essere una piacevole gita romantica diviene un dramma che per poco non si fa tragedia anche individuale, incapsulata dentro quella più collettiva quando le fiamme avvolgono il palazzo in cui i due protagonisti erano ospitati. Tutto assume la dimensione di un capovolgimento: la città accogliente e bellissima diviene la sentina di aggressività spinte fino all’omicidio, il viaggio sorridente dell’andata diviene la fuga angosciata del ritorno, gli eleganti viaggiatori riprendono il loro cammino a ritroso dentro vestiti goffi presi a prestito. Il sogno trasformato in un incubo.

Prima di questa prova di Marij Čuk conosco un unico antecedente letterario dell’incendio del Narodni dom, Il rogo nel porto, di Boris Pahor, racconto eponimo di una raccolta pubblicata da Nicolosi, un piccolo editore di Rovereto, nel 2001. A differenza di quell’illustre precedente, dettato come quasi tutta la produzione di Pahor da un’esigenza di testimoniare e quindi frutto di un’ispirazione autobiografica, il volume di Čuk è un romanzo storico, nel cui canone è la compresenza di personaggi realmente esistiti e di altri del tutto immaginari e il cui merito è di restituire al lettore un’immagine convincente di uno spazio fisico e sociale nel periodo storico che fa da sfondo alla narrazione che consente, più che non faccia un saggio storico, di comprendere appieno ciò di cui si tratta.

Lo scorso anno, il 13 luglio, i Presidenti della Repubblica italiano e sloveno hanno suggellato in una pubblica manifestazione la restituzione di quello storico edificio alla comunità slovena, a cent’anni dalla tragedia di quell’incendio che si riverbererò bel oltre i confini della città, per molti decenni successivi a quei fatti atroci e insensati.

 

 

Marij Čuk

Fiamme nere

traduzione dallo sloveno

di Martina Clerici

Mladika, Trieste 2021

  1. 160, euro 14.00