Statues’ lives matter

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Vandalizzare o distruggere una statua, anche in nome di un valore condivisibile, significa calpestare un altro diritto: il diritto all’illusione come rimedio alla precarietà della vita

di Michele Diego

 

In un’intervista al London Real, lo psicologo canadese Jordan Peterson riassume in quattro parole quella che secondo lui è la prima lezione storica che dovremmo imparare dall’olocausto: “you are the nazi”. La velenosa massima di Peterson serve a prendere consapevolezza del fatto che, durante la dittatura hitleriana, sono state persone del tutto normali ad appoggiare direttamente o indirettamente i valori propagandati dal Führer. Lo psicologo spiega che è semplice per noi, oggi, provare disgusto per le pratiche del regime e pensare che, se ci fossimo trovati noi lì, in Germania, ci saremmo comportati da eroi, impegnandoci nel soccorso degli ebrei. È facile e bello pensarlo, ma è probabilmente falso.

Oggi la mia generazione, cosiddetta dei millennials, guarda con sdegno ai valori del passato, che ora appaiono retrogradi, ingiusti, disgustosi. Ma è molto facile per noi millennials sentirci interiormente democratici e antifascisti, progressisti e anti-omofobi, per le pari opportunità e anti-patriarcali. È però, il nostro, un miglioramento congenito, genetico, innato o dipende semplicemente dall’ambiente e dall’epoca in cui siamo cresciuti? Se fossimo nati cento anni fa, in cosa avremmo creduto? Chi mi garantisce che io stesso non sarei stato come quei padri di famiglia intervistati da Pasolini in Comizi d’amore, pieni di buoni principi aderenti ai valori del tempo e visibilmente irritati al solo sentir pronunciare la parola “omosessuale”?

È in quest’ottica che mi approccio alle manifestazioni del movimento Black lives matter. È quasi impossibile, per noi giovani d’oggi, non sentire come giuste e necessarie le rivendicazioni addotte dal movimento cresciuto in popolarità dopo l’uccisione di George Floyd; nessuno può oggigiorno pensare che sia giusto discriminare un uomo in base al colore della sua pelle. E purtuttavia occorre accettare che se fossimo nati in un’epoca diversa è possibile che avremmo anche pensato in maniera diversa; magari in maniera sbagliata, ma senza la capacità di percepire il nostro errore. Con addosso questa consapevolezza, non riesco in alcun modo ad appoggiare ciò che alcune delle frange più estremiste del movimento commettono contro le statue in giro per il mondo, statue colpevoli di rappresentare chi, in un’epoca diversa, non era già aderente ai valori del terzo millennio.

Una statua di Cristoforo Colombo è stata decapitata a Boston, in quanto simbolo del colonialismo (altre statue di Colombo sono state vandalizzate, abbattute e incendiate a Minneapolis, Richmond e Saint Paul). A Londra la base della statua dedicata a Churchill è stata imbrattata con la scritta “was a racist”. Nel Dorset verrà rimossa la statua di Robert Baden-Powell, fondatore degli scout, accusato di aver fatto morire delle popolazioni africane. Sempre in Inghilterra, a Bristol, la statua di Edward Colston, mercante e politico, è stata abbattuta e poi gettata in un fiume. In Belgio, dopo Re Leopoldo II, è addirittura Giulio Cesare a finire nel mirino dei vandali, che gli hanno mozzato le dita della mano e gli hanno dedicato la scritta “criminale”. In Francia è toccata a de Gaulle e a Léon Gambetta.

In Italia, per ora, a Roma è stato ricoperto di vernice rosa un busto in marmo travertino di Antonio Baldissera (capo delle truppe italiane in Eritrea nel 1888) ed è finita al centro della cronaca la statua bronzea di Indro Montanelli, nei giardini a lui intitolati a Milano. I vandali hanno versato della vernice rossa sulla scultura del giornalista e poi hanno scritto sulla sua base “razzista, stupratore”. L’odio verso Montanelli nasce dal suo discutibile matrimonio con una ragazzina etiope appena adolescente, ai tempi della guerra coloniale in Etiopia, in cui Montanelli partecipava come ufficiale. Matrimonio che il giornalista ha descritto nei dettagli più intimi e di cui ha sempre rivendicato il diritto, sostenendo che in Africa pratiche del genere fossero del tutto normali al tempo. Nonostante il gesto di Montanelli oggi apparirebbe raccapricciante a chiunque, la discussione è spinosa e articolata. Se Beppe Severgnini scrive “Nessuno tocchi Montanelli”, l’artista Cristina Donati Meyer mette in grembo alla scultura il fantoccio di una bambina, mentre in una trasmissione tv lo scrittore Christian Raimo dà a Montanelli dello stupratore, pedofilo, assassino, mentitore e suprematista razzista.

Ci sarebbe molto da scrivere. Se da una parte è inaccettabile cambiare continente per poter violare le norme del proprio paese (come accade per il turismo sessuale di chi pensa di andare in paesi sottosviluppati così da restare impunito), è anche vero che, per esempio, in Italia sono ad oggi legali delle relazioni che negli Stati Uniti sarebbero considerate pedofilia, dimostrando come persino nei paesi occidentali moderni non ci sia uniformità dei valori sul tema.

Ma al di sopra della discussione sui valori etici, sulle loro possibili mutazioni nel tempo e nello spazio, sui modi di percepire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato da parte di generazioni diverse, esiste per me una regola aurea su cui non ho dubbi e di cui Emanuele Severino è il capostipite assoluto: la forza motrice dell’uomo è la sua paura di morire. E la paura della morte sta alla base di tutte le grandi manifestazioni dell’uomo: arte, scienza, filosofia, religione, etc. Una statua, in quest’ottica, rappresenta quindi il tentativo dell’uomo di rimanere nell’eterno, come ci insegna anche Keats nella sua Ode su un’urna greca. Un tentativo che potrà anche essere illusorio – nessuna scultura resisterà davvero in eterno -, ma che è connaturato all’esistenza stessa dell’uomo. Vandalizzare o distruggere una statua, anche in nome di un valore condivisibile, significa calpestare un altro diritto: il diritto all’illusione come rimedio alla precarietà della vita. Un diritto, quest’ultimo, congenito alla natura umana, che regola l’inconscio di ogni individuo e che può essere negato unicamente attraverso la disumanizzazione.