Strategia per una vecchia Pescheria

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Ripensamento sul Salone degli Incanti, Ma ci si intenda sulle “grandi mostre”

di Roberto Curci

 

Maliziosamente unanimi, i triestini di un secolo fa la chiamarono, com’è noto, Santa Maria del Guato. I triestini (e i molti turisti ) del post-2006 s’interrogarono invece, alquanto perplessi, su quell’intitolazione, Salone degli Incanti, che non si capiva bene a quali esoterici “incanti” (magie? illusionismi?) alludesse. E giù, qualche indigeno volonteroso e più acculturato, a spiegare che gli “incanti” si riferivano, illo tempore, alle aste del pesce appena pescato che vi si svolgevano, prima che la materia prima fosse posta in vendita alla cittadinanza.

Negli anni, però, vi fu pure qualche bello spirito che la ribattezzò Salone degli Incauti. E non del tutto a torto. Quell’ex Pescheria Grande che, nell’intento di amministratori e finanziatori del cosiddetto restyling del basilicale edificio eretto nel 1913 su progetto di Giorgio Polli , doveva (per incanto?) tramutarsi in un Centro Espositivo d’Arte Moderna e Contemporanea, a tutte maiuscole, iniziò invece un suo lungo e assai incerto cammino, devolvendo all’Arte Contemporanea la mostra del debutto, “Andy Warhol’s Timeboxes” (tra luglio e ottobre del 2006), ma – a seguire – navigando a vista e pescando piuttosto a casaccio.

Il risultato? Di tutto un po’, meno che l’Arte Moderna e Contemporanea, escluse una rassegna su Marcello Mascherini e la scultura europea del ‘900, un’opinabile mostra di Kounellis e una magra rassegna sulla Trieste Liberty. Dalle kermesse della moda ai trionfi del Lego, dalla fiera dell’antiquariato a quella del tatuaggio, in più di tre lustri il Salone ha ospitato le iniziative più incongrue e cervellotiche. Colpa di una progettualità e di una pianificazione evanescenti ed erratiche, ma colpa pure – anzi: peccato originale – di una destinazione d’uso velleitaria, mai davvero confrontatasi con la dura realtà di uno spazio certamente suggestivo ma affatto inadatto a quanto si auspicava fosse. Nuda e cruda com’è, nella sua solenne vastità (28 mila metri cubi di volume), la “basilica in riva al mare” non sopporta se non complessi e costosi allestimenti “ad hoc”, disegnarvi un coerente percorso espositivo interno è decisamente problematico, l’impatto forte della luce esterna, attraverso le grandi porte-finestre, costituisce un notevole handicap per eventuali rassegne di pittura o grafica che si reggano su materiali fragili e deperibili.

Alle fisiologiche pecche non avevano fatto evidentemente gran caso quanti avevano firmato la convenzione Comune-Fondazione che, riferendosi appunto all’«ampio corpo centrale, cuore dell’edificio», sosteneva che esso andava «destinato e attrezzato a spazio espositivo, enfatizzandone al massimo livello la polifunzionalità e la duttilità, così da essere in grado di ospitare mostre della più diversa natura (quadri, oggettistica, design, ecc.)».

Ma ora sembra si volti pagina. L’assessore alla cultura (e non solo) preannuncia un lodevole ripensamento, restituendo l’ex Pescheria ai compiti per cui fu ristrutturata. Basta dunque con gli effimeri eventi-spot , manda a dire: nei prossimi tre anni altrettante grandi mostre d’arte riscatteranno il nobile edificio, che d’altronde è l’unico spazio cittadino atto a ospitare rassegne di vasto respiro.

Bene, anzi benissimo. Meglio tardi che mai. E, pur senza annunci ufficiali e conferenze stampa, già si ventila il nome del primo prestigioso artista cui, nel 2020, verrebbe dedicato il primo evento: Maurits Cornelis Escher. Un nome, un’opera indiscutibili, di grande fascino e, ormai, pure di grande impatto e notorietà sul pubblico di ogni continente.

Ma, a ben vedere, ecco già la prima perplessità. Escher, questo mago del paradossale illusionismo percettivo, questo ironico inventore di scale e labirinti “impossibili”, che non portano da nessuna parte, giungerebbe a Trieste dopo essere stato visto in altre grandi città italiane, nonché in numerose “capitali” mondiali: New York, Parigi, Singapore, Tokio, Madrid, Lisbona…

Si tratterebbe insomma di un’ulteriore tappa di una rassegna itinerante, pensata e realizzata da uno di quei pool ultraspecializzati che oggi si disputano la “fabbricazione” di mostre chiavi-in-mano (mostre-business) da vendere ai migliori offerenti. La medesima formula, è ovvio immaginarlo, sarebbe utilizzata a Trieste pure per le successive due “grandi mostre” (al momento ignote), che auspicabilmente avrebbero notevole attrattività, ma pur sempre limitata a un’utenza locale o delle aree circumvicine, e scarse capacità di richiamo “esterno”, considerato – ad esempio – che Escher ha già fatto grandi numeri di visitatori a Roma, Napoli, Milano, Bologna, Udine (e probabilmente dimentichiamo qualche altra ubicazione).

Se l’intuibile obiettivo è quello di abbinare la caratura artistica dell’avvenimento a un incentivo al turismo culturale, beh, francamente non pare questa la strada giusta. E dispiace che si insista su quanto viene offerto a scatola chiusa da gestori esterni, quando – lo confermano certe scelte virtuose operate non solo a Milano e Roma, ma anche a Ferrara (Palazzo dei Diamanti), Padova (Palazzo Zabarella), Rovigo (Palazzo Roverella) e perfino Conegliano (Palazzo Sarcinelli), dove le mostre vengono ideate e prodotte come orgoglioso “unicum” – ben maggior valore e senso avrebbe la creazione di mostre “autarchiche” e non d’importazione.

Proporre artisti poco noti o ignoti, movimenti marginali, situazioni nuove, inedite, sorprendenti: sarebbe questa la formula vincente, e basterebbe poco. Basterebbe guardarsi attorno, rinunciando ad ambizioni esagerate o a dispendiosi trasferimenti di opere da paesi lontani. Basterebbero i nostri vicini a fornire preziosi suggerimenti: Escher, artista importante e oggi “popolare”, rischierebbe – a Trieste – di non avere sufficiente audience; ma – un solo esempio fra i tanti – portare nel Salone degli Incanti l’opera pittorica di straordinari maestri ungheresi tra ‘800 e ‘900, del tutto sconosciuti da noi (Rippl-Ronay, Nagy, Vaszary, Gulacsy), creare dunque qualcosa di totalmente nuovo, in ovvia sinergia e con adeguato battage nell’intero Nord-Est e nei paesi limitrofi, sarebbe (sogno? utopia? O solo modesta proposta?) una mossa spiazzante e l’avvio di una strategia appagante e… pagante in termini di ritorno di presenze e d’immagine.