SPECIALE SG Suggestioni e umori dalla poesia di Saba e Giotti

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di Enzo Santese

 

Gli itinerari biografici di Virgilio Giotti e di Umberto Saba sono due orbite che, pur procedendo per lunghi tratti in parallelo, trovano numerosi punti di contatto anche nelle corrispondenze con gli accadimenti delle loro rispettive esistenze. E la motivazione di una ricorrenza, l’anniversario della morte di entrambi, nel 1957, li accomuna in un esito capace di equilibrarsi con la loro sostanziale diversità: il mondo poetico dell’uno affidato al tepore di un’intimità familiare tipica del dialetto, l’altro proteso a ricercare le ragioni fondanti del suo rapporto con l’esistente sulla scorta di un’espressione italiana scarnificata del superfluo e poggiante sulla necessità dell’essenza.

Virgilio Giotti nel Piccolo canzoniere in dialetto triestino confina apparentemente la poesia nell’ambito specifico del locale, senza indulgere peraltro alla tradizione vernacolare, semmai innervando lo strumento linguistico di apporti desunti nella sua permanenza toscana. Lo tiene infatti lontano dai modi gergali della parlata corrente e lo dispone sulla pagina come una lente d’ingrandimento dei toni più privati di una città che è, prima di tutto, casa con il corredo di affetti che la rendono caldo bozzolo di sentimenti su cui poggia gran parte degli slanci lirici dell’autore. Non nomina e non indica luoghi perché è essa stessa “luogo”, dove Trieste riverbera un respiro che è tutt’uno con il suo. La sensibilità culturale lo spinge ad approfondire i tratti di possibile assonanza con vari punti di riferimento, dai lirici greci a Giacomo Leopardi, da Salvatore Di Giacomo a Giovanni Pascoli. Proprio il poeta di Recanati campeggia nell’orizzonte intellettuale di Giotti, come già risulta per esempio nella lirica del 1906 La canzon de la foia portada dal vento, scoperta da Elvio Guagnini tra i documenti di Saba all’Università di Trieste: Sempre avanti me porta el vento. Sempre / vanti vado con lu. / Prima el me porta in alto, in zima, su / de le grande montagne: / po’ dopo el me strassìna / in basso, in fondo, fin a /l’acqua che brontola , tra le campagne, /tra le case, e la gente:/ ma mi a pena che sento,/ e non so gnente. Lo si riscontra nell’armonia tra i vari elementi che danno anima alla sua espressione nitida e tersa, che diventa efficace strumento per focalizzare il suo rapporto stretto con la natura, in cui – essendo anche pittore, con particolare sensibilità per gli aspetti cangianti dell’esistente – isola tonalità d’umori e intensità di colori per innestarli in un concerto di ritmi tipici della sua scrittura. Figura de putela (1928) è uno degli esempi probanti di una versificazione per pennellate, dove il parallelismo col “pitor” è estremamente indicativo di una contiguità concettuale tra tela e pagina bianca. La perfetta aderenza nella traduzione figurale del pensiero la si rileva anche nell’illustrazione realizzata per la plaquette di Saba, Cose, leggere e vaganti, dove il segno incide la pagina con la levità di un fraseggio veloce, in piena sintonia con il titolo e il carattere dell’opera.

Virgilio Giotti, cultore della bella compagnia e della sana convivialità, sa attutire le fitte esistenziali in mezzo alle articolazioni del quotidiano, capaci di fargli assaporare la gioia di una felicità spicciola, ma autentica.

L’amabile disposizione al confronto trova il suo momento più alto nei versi di Con Bolaffio, al tavolo di un’osteria goriziana con l’amico pittore: in ‘sta su piazza bela, / noi, poeti e pitori, /stemo ben. Ma la centralità ideale della poetica giottiana sta tutta dentro il perimetro della casa, in cui si consuma il rito della vivibilità quotidiana; l’ambito domestico si rivela anche come alveo di scorrimento dei sogni, che possono raggiungere le punte estreme di gioie fantastiche oppure di terribili allucinazioni. E la tavola ha il potere di trascendere i condizionamenti dello spazio-tempo per una rappresentazione scenografica del desiderio, quella di riunire la famiglia dispersa e farla “vivere” dentro la messinscena della poesia (El Paradiso) che diventa piattaforma del mito, destinato a mettere in sordina temporaneamente le laceranti incursioni del dolore per la perdita dei propri cari. In numerosi versi c’è una sorta di prefigurazione di un destino capriccioso con punte di vera tragicità; il tutto in una versificazione che mai è casuale aggregazione di parole in contesti descrittivi, bensì calcolata scansione di spazi della memoria riportati a un presente dove la successione dei tempi fa posto a un orizzonte uniforme di accadimenti contemporanei; E el tempo che xe, bel, / tuti i tempi i xe in uno;/ e la stagion no’ istà, / no primavera o utuno. (El Paradiso).

Quando nel 1937 il critico Pietro Pancrazi in un suo intervento sul Corriere della Sera definisce il triestino di Giotti “écriture d’artiste”, qualifica un’espressione dalla marcata natura antidialettale, abbastanza lontano dalle logore forme del parlato quotidiano e ben dentro una misura concepita apposta per i versi. Per il poeta è elemento che neutralizza l’andare del tempo, che fonde passato e presente in un’allucinata rappresentazione del sogno, come nell’avvincente Co’ mia mama, dove l’affondo onirico declina modi espressivi molto lontani dal rischio della retorica e ben dentro un concetto di pacatezza, che è tipico del poeta in gran parte del suo Piccolo canzoniere.

È l’edizione di Colori, uscita dall’editore Ricciardi nel 1957 su proposta di Mario Fubini, che traccia le linee portanti di una vita dove fisicità dell’esistente e rarefazione della poesia si combinano in un affresco in cui luoghi, avvenimenti, amicizie e conoscenze, affetti e sofferenze creano un saliscendi di emozioni in una poesia che Cesare Segre non esita a definire di “una purezza tra oraziana e leopardiana”.

 

Anche per Umberto Saba la Toscana è stato il luogo a cui attingere modalità espressive puntualmente veicolate nella lingua della sua poesia; proprio a Firenze trova il calore di amici (che lo proteggono, fra l’altro, dai rigori delle leggi razziali) e la soddisfazione di primi riconoscimenti. Nel Canzoniere il tratto epico e il tono lirico si fondono in un mosaico compatto di sensazioni che muovono non solo dall’osservazione, ma anche della condivisione della vita reale, quella dove è facile restare ai margini di un flusso che, quando non fagocita, comunque relega fuori dai contesti che contano. La considerazione sincera delle persone che vivono ai bordi dell’accettabile lo porta a riconoscere un destino comune per tutte le creature, animali compresi, che soggiacciono a una regola di sofferenza perpetua. È pure vero che l’idea di un disagio onnipresente talora evapora verso una speranza di vita migliore come in Felicità (Parole, 1932-1934): Oggi è il meglio di ieri, se non è ancora la felicità./ Assumeremo un giorno la bontà / del suo volto, vedremo alcuno sciogliere / come un fumo il suo inutile dolore.

La poesia, che esibisce talora una chiara connotazione di essenzialità, poggiante spesso sulla rima facile (La bellezza m’innamora, / e la grazia m’incatena,/ e non soffro un’altra pena, se non è di ciò l’assenza./ Alla mesta adolescenza / ho lasciato i sogni vani. / Esser uomo tra gli umani, io non so più dolce cosa, dalla Sesta fuga), in ogni caso è musica dei sentimenti che si accavallano nella dinamica del verso senza mai scadere in deriva cantilenante.

L’autore ha piena consapevolezza che la sua opera si colloca fuori dal coro monocorde della poesia contemporanea e, anzi, è testimonianza diretta del suo contrasto con il mondo moderno, e quasi una sorta di “premonizione” relativa a un consenso che gli verrà post mortem. Nella Storia e Cronistoria, nelle vesti di Giuseppe Carimandrei, suo pseudonimo, si produce in un’ampia disamina di sé, dell’opera e delle motivazioni che la sorreggono riuscendo a comporre un’opera che, pur con qualche eccesso di vanità (Saba ha commesso molti errori: Ma negare la sua poesia sarebbe negare l’evidenza di un fenomeno naturale), ha una dotazione didascalica di straordinaria utilità per il lettore.

Grazie allo scuotimento dalla polvere di “ismi” dominanti, da alcuni decenni l’opera rivela un’attualità direttamente proporzionale all’interesse che la critica mostra nei suoi confronti; sempre più attenta si è fatta la focalizzazione sull’effetto della parola con la forza disvelante del nocciolo più interno dell’esperienza, quella che mette alla prova la parte più autentica e privata dell’anima.

La persistente validità del pensiero sabiano si misura anche sulla corrispondenza con realtà incontrovertibili, valide anche nel giorno d’oggi dominato dalla velocità del fare, “una delle cause che fanno più soffrire i poveri uomini, e commettere loro un maggior numero di sciocchezze” (lettera di Saba ad Aldo Camerino, dalla clinica di Gorizia il 19 marzo 1957). Anche da qui scatta la necessità avvertita come stringente di sottomettere la poesia alla verità, intesa come messa a fuoco della condizione umana nella sua interezza. L’equazione diversità-solitudine è una peculiarità della sua poesia, anche perché immune dal potere anestetico delle illusioni e quindi distante dalla distorsione della verità, per cui nel Canzoniere emerge con plastica evidenza la dolorosa consistenza della vita umana. Cadute / sono le meraviglie ad una ad una; / delle concette speranze nessuna / che mi valga, al ricordo, anche una lacrima, anche un solo sospiro. (Quando si apriva il velario, da Ultime cose, 1935-1943)

Nell’opera di Umberto Saba affiora spesso l’idea di trovarsi in un tempo che non gli appartiene: “Sono un rottame dell’Ottocento che vive nell’epoca atomica” (lettera a Nora Baldi, marzo 1950); così il tono autobiografico indulge un po’ sul personale, eleggendolo peraltro a pretesto per tentare uno sguardo fino all’orizzonte dell’universale.