Sulla difficoltà di dipingere l’aria

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“Monet e gli impressionisti in Normandia” in mostra a Trieste

di Francesco Carbone

 

Al Museo Revoltella di Trieste, dal 4 febbraio al 5 giugno, si può ammirare la mostra “Monet e gli impressionisti in Normandia”.

Su 87 quadri esposti, ci sono cinque Monet, tre Corot, due Courbet, un Géricault, un Delacroix, un Renoir e un Bonnard: questo per chi è sensibile al richiamo dei grandi nomi, di quei «classici», scriveva sarcastico Flaubert nel Dizionario dei luoghi comuni, che «si suppone tutti conoscano».

Va da sé che una mostra ben pensata, e questa lo è, è molto di più che un affastellamento di grandi nomi. Questa presenta gran parte della collezione «Peindre en Normandie», frutto di un progetto ventennale dell’associazione che porta lo stesso nome, la quale ha raccolto – se abbiamo trovato su internet informazioni aggiornate – già più di ottanta opere di artisti non solo francesi, vissuti tra il 1750 e il 1950, accomunati dall’aver scelto la Normandia, con la sua luce fredda, da catturare lungo la Senna e, sul mare, tra scogliere e spiagge di grande bellezza.

Collocata a Deauville, un paese di quattromila abitanti sull’Atlantico, la collezione è stata presentata a Copenaghen, Bergen, Helsinki, Tallinn, Riga e a Minsk. Arthemisia, azienda molto attiva nell’organizzazione d’iniziative di questo tipo, l’ha portata in Italia.

Guardare quadri impressionisti vuol dire guardare la luce. Per capire quanto possono essere belli, dovremo reimparare a capire quanto fossero sgradevoli per tantissimi contemporanei. Prima degli impressionisti, il pittore in studio cercava la luce alla fine del quadro: partendo dal nero e dagli scuri; la luce veniva data appunto come colpi di luce finali che, come per un miracolo, facevano emergere teatralmente le forme. Ripensato in studio, soprattutto il paesaggio – non meno del ritratto di un grand’uomo – veniva messo in posa: le luci e i colori venivano calibrati e armonizzati secondo un’idea di bellezza che con la natura vera poteva avere ben poco in comune: la natura veniva corretta e rifatta secondo un gusto che rifiutava le dissonanze cromatiche, e il disordine nella disposizione degli elementi, come il caos informale del cielo, del mare o di un prato: tutte cose ammesse solo come sfondo di scene quasi in ogni caso umane.

Eugène Boudin (1824 – 1898), nato in Normandia nel distretto di Calvados, faceva già il contrario: partiva da una base chiara – ocra e biacca – e quindi con pennelli a setola dura iniziava a colorare. Ammesso per la prima volta al Salon nel 1859, i suoi paesaggi pieni di aria, nuvole e vento, capaci di restituire la luce cangiante delle coste dell’Atlantico, vennero subito stroncati; ma piacquero molto a Baudelaire. Già Boudin arrivò – vedi in questa mostra Bassa marea al tramonto – ai limiti dell’astrazione, con esiti che ricordano l’inarrivabile Turner.

I fratelli Goncourt, in Manette Salomon (romanzo del 1867 ambientato proprio nel modo bohémien degli artisti in cui sarebbe germogliato l’impressionismo), pare proprio che abbiano pensato a Boudin quando hanno scritto di un pittore che aveva fatto «scoppiare con tocchi di gioia, l’allegrezza di quei colori sgargianti armonizzati dal mare», mettendo «sul bordo dell’infinito un’aria da ballo in maschera in un angolo di Longchamp». Grandissimo nell’uso di una tavolozza capace di limitarsi a variazioni di grigio azzurro (Veduta del bacino di Trouville), Boudin è l’artista che fece dire a Monet che, se era diventato pittore, lo doveva a lui.

Al Revoltella di Boudin sono esposti otto quadri, e ci ha incantato – è il quadro che avremmo rubato – Vacche lungo il fiume Touques: per la padronanza del gesto, veloce come in certi tori e corride di Picasso, che, con pennellate grosse, rapide ed esatte, ci fa vedere molto di più di quanto un occhio non pittorico saprebbe riconoscere nel riposo di qualche mucca rilassata su un prato. Boudin realizzò molte varianti, alcune molto belle, di questo soggetto. Vacche lungo il fiume Torques fa pensare a quell’apologo zen che Italo Calvino fece conoscere a tutti nelle Lezioni americane (Mondadori 2016): Chang Tzu, per dipingere un granchio, chiese all’imperatore cinque anni di tempo, e poi altri cinque: allo scadere dei dieci anni, con un solo segno, dipinse il più bel granchio che fosse stato mai ricreato da un pittore. La rapidità di Boudin ha molto genio e molto tempo alle spalle.

Di Boudin, Baudelaire contemplò – sempre in quel Salon del 1859 – la serie di pastelli «improvvisati in faccia al mare e al cielo», per cogliere «ciò che v’ha di più incostante, di più inafferrabile nella forma e nel colore, onde e nuvole». Boudin riportò in margine a ognuno di quei bozzetti l’ora, la data e persino il vento. Era per Baudelaire un esempio di ciò che gli artisti di grido non avevano capito del paesaggio: che l’invisibile da saper mostrare era proprio l’inquietudine della luce sempre sul punto di cambiare. Non è un imperatore stentoreo a cavallo una nuvola: può essere molto più difficile

Di Karl Daubigny (1846 – 1886) è diventata celebra la barca atelier, il Botin, che gli permetteva di avere un punto di vista già completamente immerso nel paesaggio, letteralmente a fior d’acqua: il vicino così si mescolava col lontano, l’uomo spariva. Monet lo imitò quando si fece il suo piccolo atelier galleggiante ormeggiato a Argenteuil per dipingere la luce sull’acqua in mezzo all’acqua: Manet lo ritrasse così nel 1874.

Anche Daubigny era ammirato da Baudelaire, e da Théophile Gautier e da Émile Zola. Zola, nel 1876, scrisse benissimo dei suoi spazi quasi espressionisti r disabitati. Al Salon di quell’anno, anche se era membro della giuria, Daubigny fu rifiutato. Si dimise. Negli anni precedenti, aveva difeso Cezanne, Pissaro, Renoir. Come in Boudin, tutto in Daubigny è pittorico, nulla è pittoresco. In questa mostra vediamo il bellissimo Villerville-les-Graves, raggio di sole.

Altrettanto incantevole è il Tramonto a Honfleur di Adolphe-Félix Cals (1810 – 1890). Honfluer, sulla foce della Senna, è stato per questi pittori uno dei luoghi importanti: Jongking ed Eugène Boudin abitarono lì. Dell’olandese Johan Barthold Jongkind (1819 – 1891), c’è un bel Litorale a Sainte-Adresse. Lo scandaloso Déjeuner sur l’herbe di Manet (1863) ha alle spalle la ricerca di Jongkind sul rapporto brusco, fino alla dissonanza, tra i neri delle ombre e le squillanti zone di luce, senza mezzi toni a temperare tra loro i colori dei passaggi.

Sono questi tutti artisti che avevano appreso la lezione realistica di Corot e Courbet, e che da lì erano andati avanti – se un andare avanti nell’arte esiste – nella restituzione di un paesaggio non più teatralizzato ed “eroico”.

Di Courbet (1819 – 1877) al Revoltella c’è la bellissima Marina, mare grosso: uno dei paesaggi realizzati in Normandia a Trouville. A Trouville aveva incontrato Boudin e Monet. Era per lui il periodo di grandiosi quadri di onde: pittura materica e pura, ancora una volta ai limiti dell’astrattismo. Alla stessa poetica appartiene Le falesie di Flammanville di Albert Marquet (1875 – 1947), che è stato scelto per la copertina del catalogo.

Apocalittico il mare di Courbet, calmissimo e silente quello di Corot (1798 – 1875): qui vediamo, ancora su una spiaggia di Honfleur, una barca in costruzione e Una spiaggia in Normandia che è un altro esempio straordinario d’impressionismo grigio, di un’armonia tonale ottenuta con minime variazioni di azzurri, grigi e verdi spenti.

Il primo dei quadri di Claude Monet (1840 – 1926) è il Paesaggio campestre al tramonto del 1864. Monet aveva ventiquattro anni. I maestri erano Boudin, Jongkind, Courbet. Nel paesaggio si vede in fondo a destra la sagoma nera della fattoria Saint-Siméon, luogo fondamentale per la formazione e la ricerca sua e di altri. Alla povera e operosissima fattoria di Saint-Siméon è dedicata la prima delle cinque sezioni della mostra con nove quadri.

Lontana dalla Parigi pompier dei Salons, sulla Côte de Grâce, vicino alla foce della Senna, la fattoria Saint-Siméon fu lo studio condiviso di pittori come Eugène Boudin, Paul Huet e Louis-Alexandre Dubourg.

Di Huet (1803 – 1869) qui vediamo La capanna del traghettatore di Trouville: è un pittore che dipinge il nuovo di questo mondo selvaggio ancora con le pennellate e il gusto di Watteau. Louis-Alexandre Dubourg (1821 – 1891) è un artista di ben altro livello: due delle tele di questa sezione sono sue.

Torniamo a Monet. Di sette anni dopo il Paesaggio è il piccolo ritratto (30 cm x 15) Camille sulla spiaggia: un altro quadro che coglie un attimo, con un’esecuzione svelta come abbiamo visto in Boudin, anche questa volta con una tavolozza minima di bianchi panna, grigi riscaldati da punte di ocra, e un blu di Prussia annacquato che prende tutto il cielo. Materico e improvviso come le mucche del suo maestro. Oltre la Normandia, il terzo Monet, che è l’ultimo della mostra è Campo di iris a Givenchy: qui la tavolozza è quella – difficilissima – delle Ninfee, dove miracolosamente si armonizzano – e intender non lo può chi non lo prova – i viola-lilla, i verdi, il grigio caldo del cielo.

Monet, che dà il titolo alla mostra, è così mostrato non da genio sbucato come Minerva dalla testa di Giove, ma come il figlio di un ambiente artistico senza la conoscenza del quale lui stesso diventa ben poco comprensibile, e cioè ammirabile. Ed è bellissimo come, raccolti assieme pittori coevi e amici, la differenza tra maggiori e minori si faccia deliziosamente problematica, sfumata, incerta. Paiono api che nutrono e si nutrono dallo stesso alveare, e l’alveare è forse il più grande degli artisti.

 

Claude Monet

Paesaggio campestre al tramonto

Olio su tela, 1863 o 1864

Roma, Banca d’Italia