Trieste: non pervenuta

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Mostre e musei a Trieste: alcune cose che non vanno nel desolante panorama della cultura triestina dell’ultimo biennio

di Luca Bellocchi

 

In appendice all’articolo scritto da Roberto Curci, testo che mi trova concorde per lunghi tratti, tanto da suggerire il fatto che, non solo Trieste non sia pervenuta ma, ormai, non stia nemmeno più sui radar della cultura, volevo proporre, a corredo, alcune riflessioni.

Ricordare, ad esempio, come in passato altre mostre, oltre a quelle indimenticabili su Basquiat, Rosenquist, Dine e sulla pittrice Leonor Fini, abbiano avuto diritto di essere chiamate con tal nome: quella su Felice Casorati, per citarne una, oppure quella sulla Trieste Liberty, allestita con maestria presso il Salone degli Incanti, oppure ancora la notevole retrospettiva “Il mondo è là – Arte moderna a Trieste 1910/1941” presso il Magazzino delle Idee, senza dimenticare quella sul gemello di Metlicovitz Marcello Dudovich. E infine la mostra “Marcello Mascherini e la scultura europea del Novecento”, curata da Flavio Fergonzi, sempre presso il Salone degli Incanti, esempio raro di grande mostra tutta orientata sulla scultura e di grandissimo impatto e valore scientifico… tutti comunque eventi lontani appartenenti a una vita passata!

Alcuni di questi appuntamenti si sono tenuti presso il Museo Revoltella, altri presso la Pescheria (oggi Salone degli Incanti), spazio certo difficile e dai costi di gestione e allestimento elevati ma dotato di un intrinseco fascino unico nel genere, altri ancora realizzati da realtà, quale è stata la Provincia di Trieste, che oggi non esistono più.

Ribadisco invece, in totale sinergia con Curci, il fatto, gravissimo, che le mostre senza un catalogo siano eventi senza un domani, fatte solamente per chi è costretto a visitarle perché obbligato dalla moglie o per doveri istituzionali. Tale situazione si reitera nella gestione dei musei: un contenitore culturale senza rivista, bollettino o pamphlet che sia, resta un luogo privo di significato, di dialogo con il visitatore e con il cittadino e si trasforma in un attore senza voce. Un museo con una rivista invece vive, presenta il proprio volto alla città attraverso le disparate attività che vi si tengono, dinamizza il tempo, mostra come collezioni, archivi, catalogazione, restauri, siano parte integrante del lavoro museale tanto quanto le mostre, in ossequio a quelle discipline moderne che rispondo al nome di Museologia e Museografia e che, ancor oggi, lasciano interdetti i non addetti ai lavori. Questo perché un museo civico deve rendere conto al cittadino coinvolgendolo quale sostenitore, frequentatore e, se possibile, connoisseur.

L’esempio di Mamiano di Traversetolo, suggerito sule pagine del Ponte rosso quale confronto nella prima parte di questa riflessione e pubblicato sul numero scorso, è un po’ difficile da mettere in relazione con la situazione locale, poiché la Magnani Rocca è una Fondazione, una delle maggiori e più importanti a livello nazionale, e non un museo civico e possiede già in situ una collezione con i fiocchi, ma è sicuramente più calzante il discorso relativo a Treviso: qui, in sinergia con eminenti musei europei, si organizzano eventi notevoli, vedasi l’ultima, straordinaria mostra su Auguste Rodin (v. Il Ponte rosso n. 32, marzo 2018). In tale occasione si è riusciti, contemporaneamente, a rilanciare un museo, un luogo e l’interesse verso un artista eccezionale non sempre così noto al grande pubblico fuori dai confini delle terre natie. Potrebbe, a tal riguardo, risultare interessante, anche per i visitatori delle nostre latitudini, il fatto che Rodin ebbe per lunghi anni contatti con il poeta Rainer Maria Rilke, che fu suo segretario e che attraverso uno straordinario libriccino, ci ha donato pagine dense di poesia sullo scultore francese. Ecco, nel catalogo ragionato, non un qualcosa scritto tanto per farlo, si ragiona in termini moderni sul dialogo tra alte pagine di letteratura e opera d’arte: qualora dunque un catalogo mostrasse un approccio nuovo, scientifico, se dovesse aggiungere qualcosa alla figura dell’artista, allora questo non può e non deve mai mancare.

Veniamo poi ad un’altra questione: acquistare mostre già belle e pronte non vuol dire per forza commettere un errore, ma, in tale ottica, si poteva allora forse spingere l’acceleratore sul flusso contrario. E investire un po’ di tempo nelle relazioni con realtà vicine disposte a creare sinergie con la città e il suo comparto culturale.

Spingere cioè sull’esportazione di alcuni prodotti locali che potevano diventare cartoline per la vocazione turistica che sta travolgendo la nostra bella Trieste: la mostra sul Liberty, ad esempio, sarebbe stata un prodotto perfetto per ampliare gli orizzonti e fregiarsi di aver esportato un prodotto locale, con tanto di bel catalogo scritto e curato da menti nostrane.

E arrivo quindi ai giorni nostri e alla mostra su Metlicovitz, di cui Curci è valente curatore: una mostra bella, con pezzi di qualità, che però resta l’ennesima occasione persa dalla nostra città e dalla (nostra) amministrazione.

Spero che il curatore non si risenta per le critiche, non sono rivolte a lui e, anzi, immagino che le mie perplessità siano state, in fase di organizzazione, le sue.

Quella su Metlicovitz poteva e doveva essere una mostra dal respiro europeo: altresì il delirante percorso su più sedi e più piani dello stesso museo (in cui spicca la fallimentare collocazione di alcuni indimenticabili manifesti nel cubicolo del V piano), non rendono giustizia ad un grande artista che resterà tale solo per pochi intimi.

Inserito invece in un contesto più ampio, Leopoldo Metlicovitz sarebbe emerso per quello che è, cioè uno dei migliori interpreti della cartellonistica europea tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento.

Sul catalogo vengono spesso citati i nomi di Laskoff, Villa, Dudovich, grandi volti del manifesto pubblicitario, e allora perché non portare in mostra un paio di pezzi che permettessero confronti veri e immediati (i Dudovich a Trieste ci sono e lo spostamento non avrebbe, credo, richiesto grande fatica).

Un bel titolo, magari “Metlicovitz e la cartellonistica europea tra Ottocento e Novecento” e una collocazione degna avrebbero fatto il resto.

In tale ottica, e chiudo, la Pescheria sarebbe stata perfetta, permettendo ai visitatori, quelli veramente interessati e che si aspettano di comprare e leggere i cataloghi – a proposito, quello di Metlicovitz c’è ed è pure ben fatto – di godere al meglio delle opere.

In questo luogo magico e di ampio respiro i pezzi, spesso di grande formato, avrebbero potuto essere sistemati e ammirati al meglio, godendo delle fascinazioni artistiche da una distanza corretta, gestendo le vertiginose altezze della Pescheria con delicati tendaggi a vela che non avrebbero forse inciso troppo sui costi di allestimento… Lego permettendo!

Ma quello dell’allestitore non è il mio lavoro e poi, si sa, purtroppo non è andata così.

Resta il fatto che non si può sempre ragionare in termini di numeri a scapito della qualità e della bellezza, che non si può sempre pensare che qualcosa valga la pena di esser fatto e visto solo perché in cambio si debba avere un profitto, che non si può credere che non valga la pena fare le mostre (e i cataloghi) perché tanto pochi le visitano (e li leggono).

Se fatte bene le mostre premiano: sempre e in ogni caso lo spirito e l’anima, spesso anche la cassa.

Vediamo ora cosa ne sarà della mostra che, organizzata in collaborazione e grazie alla ricca collezione del Museo Salce di Treviso, emigrerà a fine marzo verso la Marca, in spazi forse più adatti e meglio gestiti.

Resta il ringraziamento a Roberto Curci per averci creduto e per averci dato, pur con tutti i cortocircuiti del caso, una mostra con opere degne di tal nome: tale evento rimane, purtroppo, l’unica proposta seria nel desolante panorama della cultura triestina di questo biennio.