UN ARTISTA DI FRONTIERA

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Intervista a Fabio Fonda

 

Mossi i primi tre quattro passi nel suo accogliente appartamento sul colle di San Vito, la prima parola che mi viene in bocca è “colore”. Sarà per le prime due opere che fanno mostra di sé nell’atrio, sarà per le numerose altre appese alle pareti delle altre stanze, dipinti suoi e di altri artisti.

Conosco il tuo lavoro soltanto a partire da una tua personale del 2012 alla Comunale, ma invece hai un rapporto molto più antico col mondo dell’arte, vero?

Diciamo che ho iniziato nel ’67: ci fu quell’anno a Trieste un Festival mondiale della gioventù, che purtroppo non ebbe grande fortuna né un seguito, ma io vi partecipai, unico giovane triestino assieme a Marino Cassetti. È quella data che può essere considerata il mio esordio, anche se dopo la necessità di dedicarmi allo studio di Medicina, ovviamente, fu assorbente al punto da inibirmi per molto tempo la possibilità di dedicarmi all’espressione artistica.

Quello tuttavia non fu un episodio isolato: qualche anno dopo (e molti anni prima della mostra del 2012) ti sei cimentato ancora con mordenti, lastre e quant’altro…

È stato dopo la laurea, ovviamente, quando a Venezia, nel prestare il servizio di leva come ufficiale medico, mi è stata offerta l’opportunità di frequentare, presentato da Spacal, la Scuola internazionale di grafica. Erano gli anni ’77 ’78. A Trieste, a parte l’amicizia con Spacal, frequentavo anche Černigoj, Kravos e Vecchiet, Zulian, Klavdij Palčič, il che aveva certo contribuito a mantenere vivo in me l’interesse per le arti visive.

Tra gli autori triestini che hai citato, l’unico a non appartenere alla comunità slovena è Marino Cassetti. Non che la nazionalità abbia importanza…

Ne ha invece. Vedi, Trieste si colloca in una posizione baricentrica tra Lubiana e Venezia: la capitale slovena è uno dei più importanti siti di produzione della grafica, mentre Venezia, ovviamente, è la grande pittura, il colore… considero un privilegio di noi triestini vivere tra questi due poli della cultura visiva, e non soltanto visiva. La nostra posizione geografica su quella frontiera (che oggi non è più tale) ci vede inseriti a pieno titolo in questa realtà ibrida, rendendoci partecipi, non solo in ambito artistico, di due culture diverse, entrambe in grado di dischiudere la porta all’altra, come fortunatamente con sempre maggiore intensità e frequenza sta avvenendo.

Come triestino e come molti altri nostri concittadini, so che affluiscono ascendenze plurali nel mio DNA: una nonna slovena, ascendenze istriane, di Umago, per parte di madre. Anche se, fortunatamente, è stato risparmiato a me e ai miei il dramma dell’esodo seguito al secondo conflitto mondiale.

Ritorniamo a Venezia, dove abbiamo sospeso la narrazione sulle soglie della Scuola internazionale di grafica.

A Venezia, come ti dicevo, sono entrato in contato con quel grande maestro che è stato Riccardo Licata e in generale ho moltiplicato il mio interesse per i lavori di artisti quali Emilio Vedova – per restare a Venezia – ma anche Hans Hartung o Emilio Scanavino. Oppure, voltandosi solo un poco all’indietro, per l’opera così fortemente innovativa e sperimentale di Man Ray. Anche in quel periodo mi sono dedicato, con la grafica, alla ricerca di soluzioni originali se non inedite, utilizzando tecniche che non erano quelle piane e ortodosse suggerite dalla tradizione.

Ecco, fermandoci un attimo a Man Ray, direi che di quel maestro tu hai colto e continui a coltivare l’assillo verso l’innovazione, la sperimentazione, la ricerca di vie e di tecniche nuove.

Certo lui è stato, in ogni ambito in cui ha esercitato la sua arte, dalla pittura alla fotografia al cinema alla scultura un formidabile ricercatore, che dietro ogni angolo del suo percorso artistico pensava all’angolo successivo, alla nuova piega che poteva prendere la sua inesauribile creatività. Credo che questa sia una connotazione che caratterizza tutta l’arte contemporanea, che a mio giudizio o è sperimentale, innovativa, fortemente dinamica oppure semplicemente non è.

Sembra un’enunciazione programmatica del tuo lavoro, soprattutto dei suoi esiti più recenti, con l’uso di tecnologie e tecniche che per brevità chiameremo di “computer art”; ma non ritieni che vi sia in tutta l’arte contemporanea, a fianco del suo aspetto sperimentale, una componente ludica che anima l’artista? Per quanto riguarda ala tua esperienza, almeno?

Direi assolutamente di sì: il gioco, la libertà – se vuoi regressiva – di divertirsi nell’atto creativo è, assieme alla curiosità che cerco di appagare, la prima remunerazione psicologica del mio lavoro. Credo che tale leggerezza non tolga nulla alla serietà del lavoro e dell’impegno degli artisti, ma al contrario può costituire una controprova della genuinità del loro agire.

Tra i primi anni Ottanta che ti hanno visto impegnato sul fronte della grafica, con sperimentazioni nelle quali sei stato assistito dalla competenza tecnica di Bruno e Valentino Ponte e la tua più recente stagione creativa c’è un lungo intervallo temporale. Immagino ciò sia stato causato dai tuoi impegni professionali di cardiologo, vero?

È proprio così: la professione non mi consentiva di disporre di tempo libero, tra le incombenze ospedaliere, il necessario e costante aggiornamento, le attività di studio e di ricerca. Devo tuttavia dire che il mio lavoro in cardiologia non è totalmente separato dalla mia attività nel campo delle arti visive, perché mi ha insegnato la meticolosa cura del particolare, l’intransigenza nella valutazione dei risultati, la costante ricerca di nuove soluzioni, ma anche l’attitudine a condividere e ad ascoltare, derivante dall’esigenza di lavorare in equipe.

Ho un nitido ricordo della vernice della tua mostra alla Comunale nel 2012, perché, pur essendo molto ammirato dei risultati cui eri pervenuto, le opere esposte si discostavano parecchio da quelle che, in seno alla commissione comunale per l’assegnazione della sala, avevo avuto modo di vedere nella documentazione allegata alla tua domanda. Consideri quella mostra un punto di svolta nel tuo lavoro?

Ricordo che me l’avevi detto subito, in quell’occasione. Sì, è vero, si trattava di opere decisamente diverse, ma prima di quella mostra alla Comunale c’era stata la mia esperienza a Maribor, quell’anno Capitale europea della cultura, dove ero stato chiamato a rappresentare il nostro Paese assieme a Ottavio Missoni. Se c’è un punto di svolta nel mio lavoro, lo faccio risalire a quella importante occasione espositiva. Le cose che hai poi visto a Trieste erano figlie di quelle di Maribor.

D’accordo, anche le ultime cose che hai esposto alla Lux Art Gallery un paio di mesi fa sono una filiazione di esse: mi sembra difatti che tu mantenga una rigorosa coerenza formale, pur procedendo su un sentiero che ti impone sempre nuove soluzioni, l’uso di nuovi materiali, di tecniche che solo apparentemente sono sempre le stesse.

Mi fa piacere che tu l’abbia notato. In effetti non soltanto il risultato che si intende conseguire, ma anche, per esempio, il supporto sul quale stampare impongono più o meno evidenti scostamenti da quanto si era fatto in precedenza, per cui nulla è acquisito una volta per tutte. La gente pensa che, lavorando con un computer, si deleghino alla macchina abilità che un tempo erano riservate all’artefice, ma in verità non è così: il computer è unicamente uno strumento, proprio come un pennello o una spatola, il resto tocca a me. Che però, è giusto dirlo, grazie a tale strumento è come se lavorassi in uno studio di pittura inserito in un enorme magazzino di matite, pastelli, tempere, colori vari, spatole, e ogni altro materiale per belle arti, che posso utilizzare a mio piacimento, avendo sempre tutto a portata di mano. Non c’è tecnica che ti possa offrire un’analoga percezione di una libertà che immagini quasi assoluta.

Non pensi però che la diffidenza del pubblico e dei collezionisti nei confronti dell’arte digitale risieda anche nella sua enormemente potenziata “riproducibilità tecnica”, per dirla con Walter Benjamin?

Può essere, certo, ma si possono anche pensare soluzioni che riducano tale riproducibilità virtualmente infinita, come per esempio è già attualmente con la grafica tradizionale: si possono per esempio biffare le matrici di un’acquaforte, certificando la tiratura e determinandone conseguentemente il prezzo. Nel mio caso la questione si pone in termini ancora meno drastici, dal momento che ho la tendenza a forme ibride di figurazione, mischiando assieme, per esempio, stampe fotografiche con stampe digitali sovrapposte, e comunque intervenendo quasi sempre con interventi manuali, con qualche pennellata di acrilico che testimonia di un mio gesto sul supporto, sempre irripetibile.

Programmi per l’immediato futuro?

Per rispondermi, Fonda prende in mano un modellino in cartone di una scultura sulla quale sono disposti, inconfondibili, i bozzetti di alcune sue composizioni e capisco immediatamente, prima di sentire quello che ha da dirmi a proposito della tridimensionalità, che con lui non ho affatto finito.

 

Walter Chiereghin

Intervista del 14 luglio 2015