Un colloquio postumo e impossibile

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Miela Reina e Luigi Spazzapan a confronto a Gradisca d’Isonzo

di Walter Chiereghin

 

Due artisti, due generazioni diverse, diversi pure gli ambiti territoriali, due modalità espressive che hanno avuto esiti divergenti, dall’inizio alla fine dei rispettivi percorsi, non hanno tuttavia scoraggiato gli organizzatori della mostra “Che bellezza che finura! Miela Reina + Luigi Spazzapan. Relazioni d’arte”, allestita presso la “Galleria Regionale d’Arte Contemporanea Luigi Spazzapan” e curata da Lorenzo Michelli, che ha firmato anche il catalogo bilingue italiano/inglese. L’esposizione, che inaugura i nuovi allestimenti della Galleria, mette a confronto l’opera di Spazzapan (Gradisca d’Isonzo, 1889 – Torino, 1958) con quella di Miela Reina (Trieste, 1935 – 1972).

Un tratto distintivo che risulta comune ad entrambi, avendo ragione di ogni diversità e contrapposizione tra le vicende biografiche e creative dei due autori considerati, è sicuramente la volontà di ricercare formule innovative in una continua progressione evolutiva della propria opera, al punto che «chi incrocia con lo sguardo le loro opere rimane soggiogato da segni e costruzioni visive talmente originali e personali che sembrano necessarie e assertive rispetto al loro stare al mondo» (Michelli, nel catalogo, p. 16).

Per Luigi Spazzapan questa affermazione si rende evidente nella selezione delle opere esposte, emblematica anche se necessariamente molto riduttiva rispetto a una vicenda creativa iniziatasi negli anni Venti in area isontina, con l’adesione al Futurismo e terminata solo dalla morte, avvenuta d’improvviso il 18 febbraio 1958 nel suo studio torinese dove aveva in qualche modo anticipato l’Informale negli ultimi suoi approdi, informati sempre a una ricerca avanguardistica che traduceva in segno e colore la sua osservazione di quanto lo circondava quotidianamente o di quanto intendeva narrare, spesso attingendo a una vena ironica e leggera, talvolta caricaturale, come nel tutto tondo dei due bronzi del 1925 che ritraggono l’ingegnere Oscar Brunner e il pittore Veno Pilon, in altri casi nella danza degli Arlecchini bianchi che rimandano ai Pulcinella di Giandomenico Tiepolo, nelle figure di nudo femminile organizzate in gruppi, di evidente ambientazione postribolare, nella sottolineatura vigorosamente geometrica delle forme, anche quando sono quelle di ritratti, nell’energia del segno, nei disegni a china e tempera che ritraggono cavalli, ancora negli anni Cinquanta ispirati da un’esigenza di rappresentazione cinetica del dinamismo elegante dell’animale, retaggio di un assillo futuristico ormai cronologicamente lontano.

Diverso e necessariamente più compatto e contenuto il percorso artistico di Miela Reina, o soltanto Miela, come l’artista preferiva farsi chiamare. Una rutilante parabola di creatività durata purtroppo un solo decennio, quello dai primi anni Sessanta alla prematura inattesa scomparsa nei primi giorni del 1972. In tale limitato arco temporale sono individuabili due distinte fasi, entrambe presenti nella rassegna di Gradisca, a partire da un primo periodo, tra il 1960 e la metà del decennio, connotato da un progressivo affrancarsi dalle modalità espressive dell’adolescenza, improntate essenzialmente al realismo del Novecento, senza per questo aderire all’imperante Informale di quegli anni, ma ricercando una via personale, con la rappresentazione di figure umane sempre pesantemente coinvolte in un’organizzazione dello spazio, che si adeguano, nello spessore materico del coloreche le definisce, alla volontà narrativa dell’artista. Segue a quella prima fase un secondo fruttuoso periodo nel quale Miela acquisisce un ruolo centrale nella cultura visiva triestina a seguito dell’apertura, con Enzo Cogno, della Galleria La Cavana, che proporrà nella città giuliana artisti della neoavanguardia, e pure con la sua adesione al gruppo “Raccordosei – Arte viva”, assieme a Nino Perizi, Claudio Palčič, Enzo Cogno, Bruno Chersicla e Lilian Caraian. In un’intervista pubblicata sul n. 46 del Ponte rosso, nel giugno del 2019, così rispondeva Palčič a proposito di quel periodo: «Sì, quella fu una stagione importante, per noi sei che provenivamo da esperienze diverse e che saremmo poi approdati a risultati ancora diversi, ma anche per quanti altri ruotavano nell’ambiente di Arte viva, da Carlo de Incontrerà a Luciano Semerani e Gigetta Tamaro, a Giulio Montenero: eravamo tutti motivati dalla volontà di esplorare, in libertà, vie nuove di espressione nei diversi ambiti nei quali allora ci esprimevamo».

Per quanto concerne Miela, la seconda metà di quel decennio della sua attività matura esplose in una comunicazione visiva del tutto nuova, in cui i colori divennero più elementari e squillanti, il segno più deciso e disinvolto, comparvero elementi e simbologie ricorrenti, cuori, forbici, scritte in un’affabulazione gioiosa che andavano a concorrere alla composizione di scenografie concitate e cangianti, spesso uscendo dalla bidimensionalità del foglio per inventarsi spazi e profondità al di fuori della tela o della carta.

Una pittura che si fa spettacolo, e che nelle ultime sale della rassegna isontina viene posta in corrispondenza con gli ultimi lavori di Spazzapan, i dipinti astratti e informali dell’ultimo suo periodo, in un colloquio impossibile perché postumo tra due artisti accomunati almeno dall’inesausta volontà di esplorare con l’intensità del loro impegno territori visivi incogniti e per ciò stesso stimolanti.