Un esempio di Cancel Culture

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La Griselda di Vivaldi al Malibran di Venezia

di Luigi Cataldi

 

Non è frequente vedere rappresentato il melodramma serio del primo Settecento. Per questo è meritorio che la Fondazione Teatro La Fenice di Venezia negli ultimi cinque anni abbia riservato alle opere di Vivaldi un posto fisso in cartellone, sebbene con pochissime repliche. L’opera di quest’anno è Griselda, andata in scena dal 29/4 all’8/5 al Teatro Malibran: direzione di Diego Fasolis, regia, scene e costumi di Gianluca Falaschi, coadiuvato da un drammaturgo, Mattia Palma, e due tecnici delle luci, Alessandro Carletti e Fabio Berettin. Interpreti: Gualtiero (Jorge Navarro Colorado), Griselda (Ann Hallenberg), Costanza (Michela Antenucci), Roberto (Antonio Giovannini), Ottone (Kangmin Justin Kim), Corrado (Rosa Bove).

Un’occasione, non per una recensione, ma per qualche riflessione sulla messa in scena, che appare tipica della nostra epoca, in cui la regia tende all’assoluta autonomia, mentre, all’opposto, la direzione d’orchestra si attiene, spesso con scrupolo filologico, al testo (libretto e partitura). Ne deriva la rappresentazione di azioni diverse e contrastanti, in chiassosa coabitazione per il tempo dello spettacolo. Mi pare sia questo il caso della Griselda della Fenice.

La novella della poverissima guardiana di pecore, che, scelta dal Marchese di Saluzzo come consorte, mantiene la promessa di ubbidienza a lui fatta anche di fronte alle prove più crudeli inflitte dal marito (la richiesta di sacrificare i figli, il ripudio) e, così facendo, converte in spettacolare esempio di virtù una storia misogina, è posta a conclusione del Decameron (X.10) e si caratterizza per l’eterogeneità dei suoi significati, grazie ai quali risulta storia in vario modo esemplare: di misoginia, se si vede in Griselda solo una moglie ubbidiente e in Gualtieri un marito che diffida delle donne; di «matta bestialità» e di ingiustizia sociale, se, come fa il narratore della storia, Dioneo, si considera il marchese di Saluzzo più degno «di guardar porci che d’avere sopra uomini signoria»; di saggezza e lungimiranza paternalistica se si ritengono le prove inflitte indispensabili per la sopravvivenza del regno e della casa; di pazienza cristiana, se, come fa Petrarca (Sen. XVII.3), si considera Griselda “figura” di Abramo e di Giobbe.

Vivaldi utilizzò un vecchio libretto che Apostolo Zeno aveva scritto per la musica, oggi perduta, di Antonio Pollarolo (Venezia, S. Cassiano 1701). In Zeno la vicenda serve ad esaltare lo Stato assoluto (non si dimentichi che dal 1718 al 1731 egli fu poeta cesareo a Vienna). Il popolo, sobillato dal nobile Ottone, minaccia una rivolta per spodestare il re, col pretesto che Griselda e i figli siano indegni del posto che occupano a corte per le loro umili origini. Gualtiero non è dunque persecutore ma perseguitato, non padre e marito crudele, ma fedele custode della famiglia. Egli infatti, per proteggerli, ha fatto credere di avere ucciso i figli e li ha fatti crescere lontano dalla corte. Finzioni sono anche il ripudio della moglie e le nuove nozze, durante le quali, alla presenza dell’intera corte, Gualtiero, avendo mostrato la forza d’animo della consorte, la ricolloca sul trono e le presenta vivi i figli (la finta sposa e suo fratello). In questo sistema di valori il sovrano è l’unico custode del bene e della serenità dello Stato e i sudditi concorrono all’ordine universale solo con la loro fedeltà, o ne mettono in pericolo la pace con l’infedeltà, come ha fatto Ottone.

La versione di Vivaldi andò in scena al teatro S. Samuele di Venezia nella stagione dell’Ascensione del 1735. In quell’occasione egli fu compositore, direttore, impresario ed ebbe come collaboratore un recalcitrante Carlo Goldoni. Sostanziali mutamenti vennero apportati al libretto di Zeno. Vivaldi li impose, Goldoni li eseguì, ma non li condivise: nelle proprie memorie ne rifiutò la paternità: «Ho poi assassinato il Dramma del Zeno quanto e come ha voluto».

Nelle mani di Vivaldi l’opera diviene rappresentazione delle incertezze e delle sofferenze che tutti (sudditi e sovrano) patiscono di fronte ai colpi della sorte. Gualtiero non è più luminoso esempio di saggezza e paternalismo, ma uomo tormentato e incerto. Non c’è alcun custode del bene universale, o meglio, il custode soffre e teme la sorte come gli altri comuni mortali. «Sento, che l’alma teme / e pur non so di che […] temo di frodi e inganni / e l’alma ognor si sface / e pur non so perché», confessa Gualtiero in una delle arie richieste a Goldoni, un “allegro molto” in la maggiore, in cui il virtuosismo vocale, il movimento ossessivo dei violini, gli angoscianti unisoni di tutta l’orchestra, fanno di lui una sorta di Orfeo inseguito dalle Baccanti. Griselda, da moglie e regina devota, diviene madre angosciata e lacerata. Resta fedele al marito anche a prezzo della vita dei figli, ma lo fa con disperazione e rabbia, non con la fiduciosa remissività che aveva animato la Griselda zeniana. Una condizione che la avvicina alla follia, in particolare nell’ultima aria, pronunciata con gli accenti a singhiozzo e fuori di posto: «Son infelice tanto che / non mi basta il pianto a / consolar mie pene. / La morte chi mi dona, chi?». Vivaldi non sembra credere nella rassicurante stabilità dello Stato assoluto. Sembra invece pensare che il disordine (evocato frequentemente dalla metafora della tempesta che risuona nell’orchestra) sia la condizione naturale dell’esistenza umana e che, la ricomposizione dell’ordine, che giunge con il lieto fine, non sia frutto dell’opera del sovrano, ma piuttosto del caso. Una visione meno rassicurante e più pessimistica di quella di Zeno, ma di inquietante modernità.

Falaschi trasferisce la vicenda ai giorni nostri. Gualtiero è un industriale spalleggiato da caporali-negrieri che sfrutta il lavoro delle donne operaie di un’industria tessile, chine sulle loro macchine da cucire. Fra loro Griselda (che egli chiama “regina” e dalla quale è chiamato “re”), che il matrimonio non ha sottratto alla schiavitù domestica. Il regista intende denunciare i nefasti effetti dell’educazione «tossica» della società «machista», allora come oggi. La pazienza da virtù diventa così colpa: «Siamo dentro una favola al contrario», spiega il regista, «e se Griselda fa un salto di società sposandosi, nel matrimonio il suo sogno si tramuta velocemente in un incubo, e il principe in orco». E un orco in effetti è Gualtiero, che molesta le sue operaie al lavoro, compresa Griselda (anche mentre la scaccia dalla reggia, pardon, la licenzia dalla fabbrica) e che accoglie Costanza, la sua nuova sposa appena giunta, che egli però sa essere sua figlia, palpeggiandola: una denuncia degli abusi sessuali fra le mura domestiche? Per tutta la seconda parte la scena si tramuta in un bosco, che ospita la casa d’origine a cui ritorna Griselda dopo essere stata ripudiata. Nelle intenzioni del regista esso rappresenta «lo spazio del pensiero di Griselda, lo spazio più profondo di se stessa» . Lì però, mentre le arie che si susseguono vengono cantate sul proscenio, Gualtiero e i suoi amici danno vita a una parossistica festa orgiastica a base di alcol, danze e sesso, che culmina nello stupro di una figurante. La grande agitazione dei mimi, le danze in stile discoteca e le pantomime ostacolano l’ascolto della musica; la sovrapposizione di epoche lontane fra loro (quella del testo e quella della scena) e la diversità dei soggetti dell’azione rendono incomprensibile la vicenda.

Non pare che il regista e i suoi collaboratori si siano preoccupati delle intenzioni degli autori. Il carattere dei personaggi, i significati presenti nel testo letterario, quelli suggeriti dalla musica: tutto è stato ignorato o deformato. Un esempio di cancel culture.

 

Foto1:

Griselda

foto di Michele Crosera