UN LUPO AL CAMICE BIANCO

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Autobiografia di Oliver Sachs

Gianfranco Franchi

 

Redde rationem di un neurologo atipico, di uno scrittore-centauro, di uno psichiatra britannico già campione californiano di sollevamento pesi, di un inglese rimasto inglese nonostante cinquant’anni abbondanti tra San Francisco e New York, di un ebreo poco praticante ma entusiasta dei ricordi di un periodo in kibbutz, In movimento è l’ultimo memoir del famigerato professor Oliver Sacks, padre di Risvegli, dei bizzarri schedari L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello e Allucinazioni e scienziato-artista di fama internazionale, londinese classe 1933, morto pochi mesi fa a New York. È un testamento, un amarcord e un documento di buon interesse; è la sofferta ammissione di trentacinque anni di illibatezza, e di un’omosessualità vissuta, in giovinezza, con l’angoscia del rifiuto materno, con la ferita di un abominevole giudizio biblico e materno, con l’ansia di ritrovarsi vittima della castrazione chimica, come Alan Turing; è una raccolta di sketch e di bozzetti di incontri folgoranti e fondamentali, di più o meno illustri amicizie e sodalizi. Per i vecchi lettori dei saggi e delle raccolte cliniche del dottor Sacks la copertina è una sconcertante sorpresa: si tratta di una foto scattata nella Grande Mela nel 1961, protagonista assoluto un giovane motociclista palestrato, spalle larghe, aria spavalda e quadricipiti da pentatleta, l’aria ribelle e irrequieta. Quel signore è il nostro saggista, il dottore che abbiamo sempre immaginato barbuto, ridanciano, genialoide ed empatico così come ci venne restituito e insegnato da un memorabile Robin Williams nel film Risvegli, venticinque anni fa: quel signore è l’altro Oliver Sacks, quello di cui non potevamo avere notizia, e forse nemmeno vagamente immaginavamo. È un ragazzone fragilissimo e pieno di contrasti e contraddizioni, intellettuale per sbaglio, viziato, portato alle sperimentazioni lisergiche di ogni ordine e grado, pericolosamente autodistruttivo (e quindi molto fortunato); è un ragazzone che ha vissuto la sua omosessualità come una disgrazia per colpa del clima culturale inglese negli anni Cinquanta-Sessanta e per colpa del contesto famigliare; è un ragazzone che ha sofferto più del dovuto per la coesistenza, in casa, con un fratello matto, probabilmente schizofrenico, certamente facile alle allucinazioni, ai deliri e agli eccessi, con tutte le rovinose conseguenze famigliari, sociali e amicali che chi ha almeno un matto in casa ben sa.

È una copertina, devo dire, giustamente spiazzante: così distante dal nostro immaginario, così improbabile, così leale a un ritratto tanto improbabile e coraggioso, piacevolmente onesto. È una copertina che ci introduce nella vita di uno scienziato-artista tanto insolito da essere, sostanzialmente, unico: un anfibio vissuto spesso al limite, in qualunque contesto: accademico, sportivo, sperimentale, incapace forse di autentica radicalità soltanto nella vita sentimentale. Figlio della buona borghesia ebraica londinese, figlio di due medici e fratello di due futuri medici, e di un dissociato, il giovane Sacks venerava la statua del Laooconte nudo e muscoloso che salvava i figlioletti dai serpenti marini ma finì per farsi tormentare dai sensi di colpa per questo suo orientamento: “Vorrei che non fossi mai nato”, gli disse la madre che tanto lo aveva adorato, disintegrando il suo equilibrio psichico. Si innamorò di un poeta che non poteva ricambiarlo, e morì presto di un linfosarcoma; si ritrovò disorientato e spaesato negli anni universitari oxoniensi, in cerca di una stabilità che sembrava impossibile se non nell’esercizio fisico, e trovò consolazione e compensazione nella scrittura di quelli che chiamava, all’epoca, “Nightcaps”, cioè “sforzi frenetici e fallimentari di dar forma a una sorta di filosofia, una qualche ricetta di vita, una ragione per andare avanti”. Finì per andare a cercare rigenerazione in un kibbutz anglosassone nei pressi di Haifa, per ritrovare armonia e fiducia e direzione, lavorando in un vivaio in un contesto piacevolmente comunitario: “Al mio arrivo al kibbutz ero pallido e fuori forma, e pesavo più di 113 chili; ma quando ripartii, tre mesi dopo, ne avevo persi quasi 27 e mi sentivo più a mio agio nel mio corpo, in un senso profondo”. Il giovane Sacks sperimentò lo snorkeling ante litteram nel Mar Rosso, quando Eilat aveva appena qualche centinaio di anime, sistemate in tende o capanne e non certo in alberghi e resort; a quel punto, riferisce, “avevo ventidue anni: ero prestante, abbronzato, snello e ancora vergine”. E così, prima di tornare a Londra e di ragionare sul futuro, decide di andare nella lussuriosa Amsterdam per superare l’impasse: va a sbronzarsi in un bar, si ritrova a barcollare per strada, probabilmente perde i sensi, viene ritrovato, ubriaco fradicio, in un canale di scolo, da quello che sarebbe diventato il suo primo, molto provvisorio partner. Uno che gli spiega che non c’è bisogno di perdere conoscenza per fare ciò che si desidera. “Piansi di sollievo mentre parlavamo – scrive Sacks – e sentii che un peso immenso, un peso che consisteva soprattutto nell’autocondanna, mi era stato tolto dalle spalle, o almeno si era alleggerito di molto”. A quel punto, superata questa delicata iniziazione, Sacks tornò a casa per dedicarsi, con diversa dedizione, agli studi in medicina clinica, poi alla “medicina vera”, sul campo, e infine alla complicata scelta di lasciare il nido inglese per trovare serenità e posto nei libertari States, al di là dell’oceano. Il giovane dottore trovò spazio a San Francisco, scelta così: “Andammo in auto al Golden Gate Bridge, lungo le pendici coperte di pini di Mount Tamalpais, fino alla pace – una pace da cattedrale – di Muir Woods. Sotto le sequoie ammutolii per l’ammirazione, e fu in quel momento che decisi di restare a San Francisco, con i suoi meravigliosi dintorni”. È più o meno a questa altezza, tra gli anni californiani e quelli newyorchesi, che viene scattata la foto di copertina: “Di giorno ero l’affabile dottor Sacks, calato nel suo camice bianco; di notte svestivo i candidi panni del medico per entrare nella pelle del motociclista, e come un lupo scivolavo anonimo fuori dell’ospedale per vagabondare lungo le strade o per risalire le curve sinuose di Mount Tamalpais e poi sfrecciare sulla strada illuminata dalla luna fino a Stinson Beach o a Bodega Bay. Questa duplicità era assecondata dal fatto che il mio secondo nome è Wolf: per Thom e i miei amici motociclisti io mi chiamavo Wolf, mentre per i colleghi medici il mio nome era Oliver”. Chissà quanto del Lupo – sospetto tanto – era rimasto vivo nel dottor Oliver, almeno come scrittore, quando, da un certo punto in avanti, capisce che bisogna darsi dei limiti: è in queste pagine che ci si imbatte nel segreto della sua straordinaria creatività, e della sua insolita distanza dai suoi colleghi. Certamente il Lupo aiutava il dottore a sperimentare Lsd e anfetamine, col rischio di non riuscire a venirne fuori, quando i giorni delle droghe erano diventati due a settimana, e nessuno, proprio nessuno, doveva venirlo a sapere; certamente il Lupo si approfittò del dottore quando perse 35 chili in tre mesi, nel 1965, perché non faceva che prendere anfetamine senza più dormire. “Nel 1966, i miei amici non credevano che sarei arrivato a trentacinque anni, e non ci credevo neanch’io. Ma con l’analisi, alcuni buoni amici, le soddisfazioni del lavoro clinico e della scrittura e soprattutto con la fortuna, contro ogni aspettativa, ho passato gli ottanta”. Cinquant’anni di analisi, ascoltando “ciò che sta al di là della coscienza o delle parole”. Cinquant’anni nella gola del Lupo.

Tra le pagine più belle del libro, quelle dedicate a un incontro col vecchio Aldous Huxley, quelle sul modello di scrittura medico-letteraria, il russo A.R. Lurija, combinazione di classico e romantico, scienza e narrazione di storie, quelle sulla poca attitudine alla ricerca del nostro inquieto dottore. Nutritevene.

 

Oliver Sachs, In movimento. Una vita, trad. Isabella C. Blum, Adelphi, Milano 2015, pp. 416, euro 22