Un mito chiamato Ruth Orkin

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La prima retrospettiva in Italia ai Musei Civici di Bassano del Grappa

di Michele De Luca

 

«Tutta la sua opera è percorsa da un transitorio ma intrigante equilibrio, formale e contenutistico, dato dall’intreccio tra l’estemporaneità della foto di strada e la studiata regia di una narrazione propria di un set cinematografico. Funzione e realtà convivono senza  contraddizione né soluzione di continuità nelle sue immagini che si dilatano oltre la cornice del tempo sospeso che contraddistingue la fotografia. Che si tratti di scatti singoli o di lavori in sequenza di fotogrammi, significanti tanto nella risultanza della loro somma ma egualmente efficaci se fruiti singolarmente, l’elemento della temporalità dell’immagine e l’intersezione tra generi e arti sino centrali a tutta la carriera di ricerca di questa straordinaria e pionieristica figura di fotografa e cineasta, ancora non sufficientemente studiata e apprezzata». Così Barbara Guidi, Direttrice dei Musei Civici di Bassano del Grappa, ci introduce alla visita della mostra “Ruth Orkin, leggenda della fotografia”, la prima retrospettiva italiana dedicata alla grande fotografa e cineasta statunitense (Boston 1921 – New York 1985), autrice – come si ricorderà – del lungometraggio indipendente Little Fugitive, realizzato assieme al marito Morris Engel, premiato con il Leone d’Argento al Festival di Venezia del 1953.

L’opera di Orkin arriva in Italia in concomitanza del centenario della nascita della fotografa (1921), da poco omaggiata di una retrospettiva a New York e Toronto e da una monografia di Hatije&Cantz. Dopo Bassano (unica tappa italiana), l’antologica, realizzata assieme a Di Chroma Photography, inizierà un tour europeo ed è attesa a San Sebastian, in Spagna, e a Cascais, in Portogallo. Si tratta di un vero evento: il suo nome non può che richiamarci alla mente la sua celeberrima foto scattata a Firenze nel 1951, e cioè American Girl in Italy, vera e propria  icona dell’immaginario collettivo del Novecento che ha il primato di essere il secondo poster più venduto al mondo e che ancora oggi, dopo settant’anni, provoca mai sopite discussioni e polemiche sul tema del sessismo; qualcosa come accadde per il famosissimo scatto di Mario De Biasi Gli italiani si voltano (1954), ma che sia la fotografa che Ninalee Allen Craig (detta “Jinx”), la fotografata, hanno sempre liquidato come il messaggio della foto, al di là di ogni maschilismo (di cui era peraltro “facile” accusare come tipicamente italiano), voleva essere soltanto di ammirazione e curiosità.

All’età di dieci anni Ruth (come si legge in tante biografie di fotografi) ebbe in regalo la sua prima macchina fotografica con cui iniziò a ritrarre i suoi amici e i professori a scuola. A diciassette anni intraprese un lungo viaggio in bicicletta da Los Angeles a New York, dove si trasferì e cominciò subito a collaborare con importanti riviste, puntando il suo obiettivo su un mondo che lei amava particolarmente, e cioè quello della musica e del cinema. Nel 1951, per Life, andò in Israele per seguire la filarmonica israeliana e, in seguito, andò a Firenze. Quindi rientrò a New York per far parte dell’associazione Photo League, dove conobbe Morris Engel, con il quale si sposò nel 1952 e con cui realizzò due lungometraggi, tra cui il classico Little Fugitive che venne premiato con il Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia del 1953. Nel 1980 insegnò all’International Center of Photography.

Abbiamo così – finalmente – l’occasione di ammirare anche qui da noi le sue straordinarie immagini che ci propongono interpretazioni sempre intense e di grande qualità, qualunque sia il soggetto del suo sguardo sempre curioso e partecipe: personaggi illustri del mondo hollywoodiano o newyorchese – come Robert Capa, Lauren Bacall, Albert Einstein o Woody Allen – o situazioni di vita ordinaria, che solo il suo occhio sa trasformare in uniche e “straordinarie”, anche se scattate dalla finestra del suo appartamento al Central Park. Come accadde ad André Kertesz, che passò gli ultimi anni della sua vita a fotografare dalla sua finestra in Washington Square («Quella piazza orrenda, bella soltanto se fotografata da lui», come ricordava Cornell Capa). Negli anni ’40, infatti, instaura un modus operandi che praticò alacremente.

Come ci racconta Anne Morin sulle pagine del catalogo, con la serie Dall’alto, la Orkin «cattura perpendicolarmente da una finestra, gli avvenimenti che si svolgono per strada, riprendendo alcune persone del tutto ignare di essere oggetto del suo sguardo fotografico: un gruppo di signore che danno da mangiare ai gatti di strada; un padre che, acquistata una fetta di anguria, la porge alla figlia davanti al chiosco del venditore ambulante; due poliziotti che fanno cordone attorno ad un materasso logoro abbandonato per strada (accadeva anche allora in America!, n.d.r.); due bambine che giocano a farsi volteggiare l’una l’altra; un gruppo di marinai che incedono speditamente e divengono riconoscibili per i loro berretti che si stagliano come dischi bianchi sul fondale grigio dell’asfalto». E via dicendo: gente qualunque, che fa gesti qualunque, automatici e insignificanti, in cui il suo occhio sa comunque cogliere una storia, scoprire una forma, proporre un punto di vista originale, con la sua indiscussa capacità di tradurre in un affascinante rapporto simbiotico, l’evidenza del dato reale, dell’apparenza sensibile di persone e cose, con la sua “organizzazione” interiore dell’immagine.

 

 

American girl in Italy

Firenze, 1951

© Ruth Orkin Photo