Un socialista ai confini
atti | febbraio 2018 | Il Ponte rosso N° 31 | Luca G. Manenti
Un intellettuale tra Marx e Mazzini, tra pacifismo e bellicismo, tra un regno e un impero, tra nazionalismi in conflitto
di Luca G. Manenti
Il volume Angelo Vivante e il tramonto della ragione raccoglie gli atti di un convegno svoltosi a Trieste nel 2016 su iniziativa del Centro Studi Scipio Slataper, includendo in una corposa appendice scritti vivantiani apparsi su alcune delle principali riviste italiane primo-novecentesche, dalla Critica sociale all’Unità. Un grande lavoro aggiuntivo di scavo e recupero, quindi, che costituisce uno dei meriti del curatore, Luca Zorzenon, nella convinzione implicita che, spesso, il miglior inedito coincida con un edito dimenticato e disperso. Va detto subito che di questo libro c’era bisogno, perché, dopo gli ottimi lavori di Camillo Daneo del 1988 e di Anna Millo successivo di dieci anni, mancava una rilettura aggiornata della figura del socialista triestino, qui svolta da noti ricercatori, a partire da Renate Lunzer.
La storica analizza Dal covo dei traditori, opera del 1914 che poco portava di nuovo sul piatto della discussione rispetto al precedente Irredentismo adriatico, se non un tono più acceso in difesa dei socialisti d’Austria e un attacco maggiormente vigoroso alla retorica della borghesia triestina, che accusava i socialisti di voler slavificare una città presunta italiana di diritto pur essendo il capitalismo, secondo Vivante, l’artefice del risveglio slavo. Risveglio e non invasione, poiché avrebbe dovuto essere riconosciuta, egli continuava, l’autoctonia degli sloveni nelle terre contese dall’irredentismo e respinta come fasulla l’idea che il governo austriaco, in combutta con i socialisti, ne organizzasse l’afflusso nel porto adriatico. La lotta fra italiani e slavi sarebbe stata un mero paravento per gli interessi del capitalismo. Il saggio di Lunzer è il primo del volume e per primo mette in luce un’intuizione vivantiana riconosciuta anche da Millo e Verginella, vale a dire l’embrionale formulazione del concetto, oggi consolidato, di «comunità immaginata», espressione di fresco conio che rimanda all’esistenza di una nazione astratta, costruita attraverso il richiamo sentimentale a un passato condiviso e a una compattezza ideale decretata da fattori bio-culturali.
Anna Millo propone uno studio sulla produzione di Vivante degli anni 1908-1913, riconducendone l’elaborazione teorica al milieu intellettuale che ne permise la genesi, a cominciare da Salvemini, conosciuto nel 1904 a Trieste, e al contesto politico internazionale in cui essa maturò: un fazzoletto d’anni turbolento, che vide l’annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina, la conquista italiana della Libia, le guerre balcaniche. Uno degli intenti – riuscito – della storica è stato quello d’assolvere Vivante dall’accusa, mossa da personaggi autorevoli come Arduino Agnelli, d’esser stato ancorato a una visione particolaristica, priva di vaste prospettive. La dialettica Salvemini-Vivante del 1908 si svolse tra due socialisti allineati nei giudizi sul tema dell’irredentismo, considerato esiziale per gli italiani adriatici. Molto, poi, il triestino doveva al pugliese in termini di riflessione teorica, pur avendone rifiutato i presupposti reputati insufficientemente suffragati dall’analisi empirica, stante l’importanza fondamentale da lui attribuita al dato oggettivo e al controllo quantitativo. L’autrice contestualizza l’intervento di Vivante sulla Voce del 1910, anno di fondazione dell’Associazione nazionalista italiana, che lo indusse a rintuzzare le esorbitanti pretese dei nazionalisti, contestandone le tesi principali: quella del carattere artificiale, favorito dall’Austria, dello sviluppo demografico sloveno a Trieste, che sarebbe invece avvenuto sulla spinta dello sviluppo economico, e quella secondo cui la prosperità del centro adriatico derivava dalla sua felice posizione geografica piuttosto che dal ruolo protettivo esercitato dal governo austriaco.
Fulvio Senardi ha redatto ciò che potremmo definire un testo a grappoli, poiché lo scritto principale, contenente l’analisi della polemica Vivante-Salvemini, è chiosato da note a piè pagina che non si limitano a fornire una bibliografia, rappresentando invece, a tutti gli effetti, dei micro-saggi, tanto sono curate e tanto approfondiscono, con digressioni pertinenti, varie sotto-questioni affrontate nelle sfumature anche più tenui; attitudine che si concretizza in una serie di excursus ed esplicazioni che rendono l’articolo assai denso e stratificato. L’autore (un letterato, a vedere il curriculum, sebbene totalmente a suo agio a dialogare con Clio) scioglie la matassa di un problema complesso: l’opposizione fra socialisti italiani e austriaci all’indomani dell’annessione imperiale della Bosnia-Erzegovina nel 1908, intrapresa sulle pagine di Critica sociale in rappresentanza dei primi da Salvemini e dei secondi da Vivante. L’accusa rivolta ai colleghi asburgici era quella di non essersi opposti con adeguata energia a un colpo di mano bellicista, negatore del principio d’autodeterminazione di mazziniana memoria (il sottotitolo del saggio per l’appunto recita Marx contro Mazzini? con un punto di domanda finale che permette a Senardi di evitare ingessati schematismi, collocando su fronti antitetici uomini che godettero di larga autonomia di pensiero, ma insieme di cogliere in modo perfetto lo spirito della diatriba). Vivante, da una parte, era convinto che l’annessione avesse indebolito l’Austria in politica estera e rafforzato le economie interne della Bosnia e dell’Erzegovina, in quanto i rispettivi lavoratori avrebbero finalmente potuto beneficiare di quel po’ di garanzie concesse dall’impero al proprio proletariato; Salvemini, dall’altra, era fermo nel denunciare la pericolosità insita nell’atto di legare i destini dei proletari e della borghesia, finendo per giustificarne le imprese colonialiste e riducendo il socialismo a una sorta d’egoismo corporativo.
L’autore non si limita a descrivere i tempi e i modi del diverbio tra i due intellettuali ed entra nel campo insidioso del sottinteso, estraendo dal grumo delle diverse prese di posizione le intenzioni psicologiche che vi sottostavano; e valga come esempio l’idea che Vivante avesse avuto bastante fiuto politico da pensare che una soluzione al problema dell’armonizzazione strategica di un movimento operaio frammentato in paesi con gradi di sviluppo diversi potesse risiedere precisamente nell’implementazione di un proletariato arretrato in un’area più sviluppata. Insomma, Marx versus Mazzini, stando alla lettura di Senardi, estremamente valida proprio perché espressa con le dovute riserve, ossia solidarietà orizzontale tra stesse classi di diversi paesi da un lato, verticale tra diverse classi dello stesso paese dall’altro.
Marta Verginella riconosce a Vivante la capacità di gettare sui temi trattati uno sguardo innovativo e di far ricorso a un approccio metodologico serio, che lo aveva portato a studiare tutte le nazionalità dell’area alto adriatica e ad analizzare i fattori politici ed economici congiuntamente a quelli psicologici, utilizzando cioè gli strumenti conoscitivi offerti dall’austro-marxismo quando tornavano utili e ad abbandonarli quand’era il caso di farlo, così come seppe distanziarsi dalle sicurezze scricchiolanti del positivismo per avventurarsi nell’accidentato terreno della mentalità collettiva e degli stati d’animo delle masse. L’attento richiamo al panorama storiografico passato e presente e la sottolineatura del portato di novità dell’elaborazione teorica di Vivante sono i punti di forti del saggio della storica, che parla di «sfida visionaria» portata avanti dal triestino, il quale, meno interessato al conflitto nazionale in sé rispetto alla costruzione delle comunità nazionali, anticipò, come già detto, le moderne acquisizioni sull’idea di nazione, che ne hanno evidenziato la natura artificiosa, ma non per questo meno cogente, modellata da due attori alleati: élite borghesi e storici militanti.
Anche Verginella assolve il socialista dall’imputazione d’essere stato succube di un’ottica ristretta e territoriale, avendo egli invece messo in relazione il particolare con il generale, Trieste con il regno e l’impero, e preso in esame il peso di ogni realtà sociale in seno a quest’ultimo. Il maggior merito dell’intellettuale andrebbe cercato, elle afferma, nell’operazione di decostruzione dei miti nazionali e nella negazione dell’impermeabilità dei confini comunitari in una fase storica in cui quei miti e quei confini godevano di un incondizionato appoggio da parte dei manipolatori dell’opinione pubblica.
Salvator Žitko restituisce l’impatto sul lungo periodo di Vivante nella saggistica e nei discorsi politici di sloveni e croati, che se ne avvalsero per dirimere problemi demografici ed economici e nelle dispute territoriali susseguenti alla prima e alla seconda guerra mondiale. Spulciando nel mare magnum delle pubblicazioni del periodo pre- e inter-bellico a caccia di menzioni del socialista, Žitko le scova in Golouh, Rybar, Tuma, Regent, Čermeli, Vojnovič e altri. Nel 1945 Irredentismo adriatico venne ripubblicato a Lubiana con riassunti in inglese e russo e ritornò utile nelle discussioni intorno al profilo geopolitico che avrebbe dovuto emergere dalle macerie della seconda guerra.
Infine il saggio di Luca Zorzenon, che antepone a una scrupolosa disamina di Nazioni e Stato in Austria-Ungheria di Vivante, uscito in quattro parti sull’Unità nel 1913, un paragrafo introduttivo in cui sono messi in rapporto il triestino e uno storico marxista del Novecento, Eric Hobsbawm, e rilevata la comune adozione di un punto di vista agnostico nell’analisi dei nazionalismi, al fine d’osservarli con la giusta freddezza critica. Zorzenon colloca Nazioni e Stato nel quadro degli avvenimenti coevi e ne individua la platea in un’Italia attraversata da forze politiche irredentiste ferocemente aggressive, tra le quali egli annovera pure i mazziniani, per quanto l’accostamento di coloro che da lì a poco si sarebbero schierati sul fronte dell’interventismo democratico ai nazionalisti di destra appaia un giudizio tranciante, impietoso nei confronti dei seguaci del cospiratore genovese, i quali, se col senno di poi è facile reputare politicamente ingenui per l’ostinazione con cui perseguirono obiettivi utopistici, nondimeno furono i corifei di un’accezione positiva della nazione, difensori sinceri del diritto di tutti all’espressione della propria cultura, insieme altruisti e patriottici, se è concesso un affiancamento lessicale che gli imperialisti esasperati, non loro, trasformarono in ossimoro.
Zorzenon indica in Renner e Bauer due pensatori che influirono su Vivante in termini sia teorici che metodologici. Il triestino accolse il correttivo di Bauer alla teoria engelsiana sull’inevitabile scomparsa dei cosiddetti popoli senza storia e schivò le secche di una rigida interpretazione marxista evitando di anteporre sempre e comunque il dato economico a quelli psicologici e culturali. Bene fa Zorzenon a rilevare pure le prese di distanza di Vivante da Bauer, soprattutto in merito alla tesi di quest’ultimo sulla possibile e positiva integrazione del proletariato in una nazione dominata sì dalla borghesia, ma funzionale a futuri esiti socialisti; sebbene qui, a nostra opinione, il triestino sfiorasse la contraddizione, se si tiene a mente il contenuto della sua difesa dei socialisti austriaci di fronte a quelli italiani, di cui Senardi ha dato conto in maniera soddisfacente. In conclusione, il volume rappresenta un avanzamento delle conoscenze su Vivante, l’austro-marxismo e il socialismo italiano d’inizio Novecento, merito di un gruppo di contributori competenti e della generosa prova fornita dal curatore.