Un pittore per il cinema

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Treviso dedica una spettacolare mostra a Renato Casaro, “ultimo cartellonista”

di Roberto Curci

 

Che l’arte del manifesto sia tramontata da un bel po’ è cosa pacifica e assodata. Ovviamente: non che il manifesto murale, benché affatto subalterno alla pubblicità via tv, web e superstiti giornali cartacei, sia estinto. Tutt’altro. Sicché quello dell’affissione rimane un canale comunicativo ancora percorribile dai “persuasori occulti” del XXI secolo. Ciò che appartiene al tempo che fu è invece il manifesto disegnato, il manifesto (poster, Plakat, affiche) “d’autore”, quello che dalla fine dell’Ottocento ebbe – come si sa – maestri insigni, da Beardsley e Toulouse-Lautrec ai nostri Dudovich, Metlicovitz, Cappiello, Mauzan, Boccasile e molti altri.

Sono stati gli anni ’60-’70 del secolo scorso a scandire agonia e morte del cartellone pubblicitario firmato: con le invenzioni terminali di Raymond Savignac e di Armando Testa (ma anche del triestino Giampaolo Amstici) e con i manifesti “psichedelici” che reclamizzavano i concerti rock negli Usa. Poi il cartellone sarebbe rimasto preda esclusiva del medium che già dagli anni ’30 lentamente lo andava monopolizzando: la Fotografia; e – a seguire – la gamma infinita delle elaborazioni digitali, che avrebbero definitivamente amputato la mano dell’artista, sia pure teleguidato da art director e graphic visualizer.

E tuttavia. L’”ultimo cartellonista” si concede, fuori tempo massimo, una rivincita di stima e di prestigio. Succede con la mostra che Treviso dedica a colui che, in effetti, è stato (ed è, vivente nella città natale: Treviso appunto) il rappresentante più significativo di un mestiere oggi perduto: quello del fabbricante di manifesti pubblicitari usciti dalla mente e dalla mano di un artista, a forza di pennellate anziché di smanettamenti sul mouse. Chiamiamolo pure pittore: ché tale è stato definito Renato Casaro, classe 1935, “pittore del cinema” dato che tutta la sua produzione, dal 1954 al 1999, è stata dedicata alla creazione di manifesti cinematografici, al servizio di più di 120 pellicole di serie A, B e C, belle e brutte, dai western ai peplum, dagli horror a capolavori assoluti firmati da registi quali Bergman, Truffaut, Costa-Gavras, Besson, Coppola, Forman e, tra gli italiani, Leone, Germi, Monicelli, Rosi, Bertolucci, Bellocchio, Cavani. Suoi, per dire, i manifesti di Amadeus, Il nome della rosa, L’ultimo imperatore, la trilogia di Rambo, Balla coi lupi, Il tè nel deserto.

A Casaro Treviso dedica una spettacolare mostra curata da due espertissimi dell’universo del manifesto quali Roberto Festi ed Eugenio Manzato, e articolata nelle tre sedi deputate alla valorizzazione dell’immensa Raccolta Salce, che ha trovato da non molto nell’ex chiesa di Santa Margherita il luogo finalmente devoluto alla pubblica fruizione di questo patrimonio straordinario e fino a ieri invisibile, se non nel sito web creato qualche anno fa, in coincidenza con la promozione della Raccolta al rango di Museo Nazionale Collezione Salce. La rassegna (visitabile fino al 1.o maggio 2022) attinge anche all’Archivio Casaro e alla collezione di Maurizio Baroni, e le fa da degno corollario un catalogo molto particolare e raffinato, edito da Antiga.

Renato Casaro, dunque: ovvero questo sconosciuto. Destino di tanti bravi cartellonisti del secolo scorso, e di quelli votati alla pubblicità cinematografica più di tutti. È scontato che nell’arco del ‘900 i nomi di Anselmo Ballester, Alfredo Capitani, Luigi Martinati o Angelo Cesselon nulla abbiano detto a chi, incuriosito o affascinato dai loro manifesti affissi sulla pubblica via, decise tuttavia di entrare un certo giorno in quel certo cinema a vedere quel certo film. Renato Casaro non si è sottratto a tale sorte, e la mostra trevigiana ha dunque il significato e il valore di un sacrosanto risarcimento.

Sconosciuto al pubblico, Casaro, ma apprezzatissimo da molti registi, che proprio lui pretendevano come autore dei manifesti dei film di nuova uscita: tanto che, avendo deciso di dismettere il mestiere nel 1999 e godersi una meritata quiescenza, è stato invece richiamato in servizio nel 2018 – a 83 anni – da Quentin Tarantino, che ha preteso la sua collaborazione, e giammai quella di altri, per i “poster vintage” del suo C’era una volta a… Hollywood («Sei sempre stato il mio favorito! Love!» gli ha scritto poi).

S’intende: l’arte di Renato Casaro, la sua istintiva manualità priva di qualsiasi scuola, il suo fiuto sopraffino nel sintetizzare in un’immagine il “succo” di un certo film, magari senza vederlo e basandosi sulle sole foto di scena, sono andati evolvendosi nel tempo, dal lontano 1954 che a 19 anni segnò il suo precocissimo debutto, in uno studio grafico romano. Appena tre anni dopo si sarebbe messo in proprio e sarebbe iniziata la sua prima fase creativa, ancora debitrice di un certo gusto dell’illustrazione “gridata”, a forti tinte, da copertina di rivista popolare dell’epoca: scene passionali, drammatiche, perfino truculente.

Ma eccezionale si rivelò, da subito, la sua capacità di catturare le fattezze dei protagonisti dei vari film. Si trattasse di Yul Brinner, di Alberto Sordi o – più tardi –  di Sylvester Stallone e Sean Connery (ma anche di Ciccio e Franco, Tognazzi, Celentano), i suoi ritratti puntavano a un iperrealismo di sbalorditiva fedeltà: tanto più da quando, negli anni ’80 – il suo periodo d’oro, coincidente con un trasferimento di vita e di professione a Monaco di Baviera -, optò per un’innovazione tecnica rivelatasi decisiva, unendo all’uso del pennello quello dell’aerografo e così perfezionando ancor più la propensione a un “verismo” pressoché fotografico.

«Il film è il mio hobby. Il mio hobby è il mestiere. Il mestiere è la mia vita. E la mia vita è un film in technicolor e cinemascope». Una frase a lui attribuita, che sintetizza comunque il personaggio-Casaro e la sua monomaniaca vocazione, consegnata alla storia del cinema e dell’arte del manifesto.

“L’ultimo cartellonista”, in effetti.

 

 

 

Renato Casaro

“Amadeus”, 1984, e “Balla coi lupi”, 1990

Museo Nazionale

Collezione Salce, Treviso