Un telegrafo in Porto Vecchio

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Questo posto deve diventare un’altra cosa: da area portuale, perlopiù dismessa e non utilizzata, deve trasformarsi in una parte di città

di Enrico Conte

 

 

 

“Penso all’uomo che costruisce le cose, che crea,

che lavora la terra, le pianure dell’Ovest come le miniere di ferro della Pennsylvania.

È sempre un problema di costruzione: con un pennello, con un badile, con una penna”

Jackson Pollock

 

Sono un Telegrafo abbandonato nel Magazzino 25.

Punto-linea-Punto

Nessuno si è accorto di me quando è uscita da questo posto l’ultima mucca stoccata, dalla Società Prioglio. Vivo in un porto realizzato in una città che è stata prima emporio e luogo di scambi, una specie di fiera commerciale permanente, poi porta di transito attraverso la quale le merci, vendute già all’origine, venivano inoltrate ai rispettivi acquirenti e per la quale venne edificato un porto, collegato alla linea ferroviaria con nuove strutture inaugurate dall’Imperatore.

Ricordo i fragori della Grande Guerra, la folla e l’entusiasmo, per il ritorno di Trieste all’Italia (avevo 18 anni, sono stato costruito nel 1900). Rammento quando la città fu scelta per annunciare, dal Palazzo del Governo, le leggi razziali del Duce.

Punto-linea-punto

Finita la Seconda Guerra Mondiale, ho sentito il rumore dei disordini di piazza, l’invasione titina e l’impronta lasciata su Trieste dall’esodo della gente d’Istria.

Non lontano da questi spazi hanno trovato ricovero le vettovaglie dei profughi che, nel Magazzino 18, occupano lunghi corridoi con sedie, letti, armadi frutto di un conflitto che ha generato ferite rimaste aperte per molti anni.

Punto-linea-punto

Confinato qui, nella polvere che si accumulava, ho immaginato tutta quella gente e poi i tanti cittadini della Jugoslavia che si accalcavano tra le baracche di Piazza Libertà e di Ponterosso per acquistare jeans a prezzi stracciati.

Per tanti anni hanno litigato sulla mia testa e sul mio destino, partendo da una rendita che ha prodotto altra rendita – di posizione – trasformando questo posto in un luogo distopico che ha contaminato la città anche e solo per averlo “osservato” così in abbandono per lunghi anni.

Adesso, da quando ho cambiato proprietario – non se ne sono nemmeno accorti che in questo Magazzino c’è anche un Telegrafo – sento nuovamente parlare del mio destino.

Punto-linea-punto

Vorrei che mi ascoltassero, vorrei che, prima di portarmi via e rottamarmi con una ruspa, sentissero la necessità di mettersi in relazione con la mia storia per costruire, con quella, un progetto di rigenerazione che partisse dal passato per realizzare architetture che rappresentino il presente, la sua cultura, le sue ambizioni, quelle del tempo che stiamo vivendo e dobbiamo capire.

Questo posto deve diventare un’altra cosa: da area portuale, perlopiù dismessa e non utilizzata, deve trasformarsi in una parte di città.

Pur essendo un umile Telegrafo, ho presente il pensiero di un francese, mi sembra si chiami Marc Augè, che dice che i luoghi hanno tre principali caratteristiche: sono identitari, storici e relazionali. È difficile non trovare in questi spazi indici di questi tre fattori ma questo luogo lo è in modo incompleto, “muto” mi viene da dire, dopo essere stato senza ideali (distopico).

Punto-linea-punto

Adesso voglio parlare, voglio che questi spazi architettonici vengano riempiti di senso, ancor prima che di volumi (pochissimi, mi auguro) e servizi (a rete), ambiti da occupare con piazze, alberi e dispositivi economici di servizi innovativi e di qualità, per le persone e le cose, che possano mettersi in relazione, accompagnati dalla musica (adoro il jazz).

Punto-linea-punto

Il presente è la risultante di un flusso di eventi che proviene dal passato, diceva Walter Benjamin che concepiva il passato come l’altra faccia del presente, derivante da un prodotto di esso. È il presente che genera al suo interno il passato e il passato non può sussistere indipendentemente da un presente che lo testimonia e lo redime.

Scusate l’ennesima citazione da parte di un Telegrafo arrugginito, ma il mio più forte desiderio è vedere segni di un passato immobile che si redime: “Guarda, sono vivo – “Non era una passione della mente – così Stoner di John Williams – e nemmeno dello spirito: era piuttosto una forza che comprendeva entrambi, come se non fossero che la materia, la sostanza specifica dell’amore stesso. A una donna o a una poesia, il suo amore diceva, semplicemente: guarda sono vivo!”

Punto-linea-punto

Vorrei vedere intorno a me gente che prende le misure per preparare i progetti e immagina il mio futuro ampliando le definizioni di ogni lingua, da quella architettonica a quella del pensiero urbano in senso lato.

Io sono un Telegrafo, ma vorrei diventare qualcosa di diverso: appartengo anch’io a quella “ ciurma eterogenea….” di italiani, tedeschi, inglesi, francesi, armeni ed ebrei che faceva dire a Karl Marx, scrivendo nel 1857 a proposito di Trieste, che la città, anche grazie a questa caratteristica dei suoi abitanti, non era appesantita dalla tradizione e godeva il vantaggio, analogamente agli Stati Uniti, di “non avere un passato”. Adesso voglio uscire da qui, per camminare, per vivere questo luogo riconquistato, da usare per costruire una nuova relazione con la città, dove potersi fermare ad osservare Trieste che cambia, da una prospettiva inedita.

Immagino di trovarmi sui bordi del Molo 0, con le spalle rivolte al mare e gli occhi puntati sul Magazzino 26. Mi auguro che quel contenitore venga ripensato e recuperato avendo riguardo non solo al suo involucro (contenitore) ma anche alla sua funzione, e facendo attenzione a renderlo centro di ricavi, ad esempio grazie al noleggio per eventi, alla locazione di uffici, a servizi di ristorazione e di intrattenimento culturale. Auspico che grazie a una serie di programmi e di iniziative integrate si coltivino e si alimentino le condizioni per realizzare un bacino di utenti più esteso della sola città, ampliando così l’offerta e la domanda di servizi per un pubblico giovane, creativo, globale, attratto dal capoluogo.

Punto-linea-punto

Non ho bisogno dell’illusione di costruire straordinarie città e mirabolanti edifici, di cui però non conosciamo il rapporto urbano, né le relazioni con l’uomo, con la tecnologia e l’ambiente, che diventano, così, del tutto secondarie e irrilevanti. Ho bisogno di una contemporaneità che non sia creatrice di estraneità (Mario Cucinella).

Punto-linea-punto.

Il Gran Khan, ve lo ricordate, possiede un atlante in cui sono raccolte le mappe di tutte le città: quelle che elevano le loro mura su salde fondamenta, quelle che caddero in rovina e furono inghiottite dalla sabbia, quelle che esisteranno un giorno e al cui posto ancora non s’aprono che le tane delle lepri. L’atlante ha questa qualità: rivela la forma delle città che ancora non hanno una forma né un nome (Italo Calvino, Le città invisibili).

Punto-linea-punto. Punto.