Una conversazione difficile

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di Giuseppe O. Longo

 

Eravamo stati affidati a una coppia matura, lui piuttosto pingue, semicalvo, occhi scerpellini, elegante di quell’eleganza sportiva tipica degli inglesi, giacca pesante, gilè, camicia aperta all’ultimo bottone e foulard azzurro cupo e pallini gialli. Sua moglie, ben piantata sulle gambe colonnari, sguardo celeste e bocca generosa, pronta al sorriso, capelli biondo tinto piuttosto corti e a messimpiega, vestiva severi tailleur che le segnavano bene la vita e per contrasto la larghezza opima dei fianchi. Mi avevano fatto capire, o meglio lui mi aveva fatto capire con cenni del capo e con gesti misurati delle mani, più che con il tipico abbaio britannico, le cui sonorità impuntate non decifravo, mi aveva fatto capire che volevano parlarmi. Ci eravamo appartati in un angolo del salone, accanto a un enorme caminetto, un po’ in disparte rispetto al passaggio continuo di ragazzi per lo più impegnati anche loro nel consueto abbaio. Intorno, su poltrone di mascarizzo, sedevano lettori di giornali, giocatori di scacchi e di dama, o semplici perditempo. Il tutto avvolto nella caligine greve degli effluvi che esalavano dalla cucina badiale e che mi provocavano un misto di disgusto, di stimolo viscerogastrico e di incipienti contrazioni peristaltiche. E si svolse allora una conversazione assurda, insensata, lunare, tra me e l’uomo, di cui non so e non sapevo neppure allora il nome, mentre sua moglie si limitava a sorridere comprensiva, socchiudendo placida gli occhioni azzurro pallido. Ho detto che eravamo stati affidati a questa coppia, nel senso che ci salutavamo con rispettosa cordialità e sapevamo che per ogni necessità ci saremmo potuti rivolgere a loro. In effetti, che io sappia, nessuno di noi aveva mai approfittato di questa possibilità, del nostro gruppo di studenti dell’ultimo anno di liceo, brufolosi e un po’ sciamannati. Eravamo venuti a Londra per imparare la lingua, forse questo particolare era sfuggito al signor Xy, che aveva cominciato a parlarmi come se io fossi un inglese, con disinvolta rapidità e con pause eloquenti, sottolineate da ampi sorrisi della signora Xy. Io non capivo assolutamente nulla, e forse questa mia inadeguatezza era stata colta dal signor Xy, perché al mio ennesimo yes mi fissò stranito, poi guardò con aria interrogativa sua moglie, che gli rispose con un’occhiata di incoraggiamento. Rinfrancato, l’uomo riprese il suo abbaio, in cui cominciavo a distinguere certe parole ricorrenti: post office, fermo posta (in italiano, me ne accorsi dopo un po’), passport, letter… Ogni volta che riconoscevo una parola lo guardavo con aria trionfante ed emettevo uno yes sonoro, che a volte destava nella coppia una reazione promettente, a giudicare dal sorriso della signora, altre volte suscitava un misto di perplessità e di allegria, altre volte la reazione era affatto incomprensibile e allora per cavarmi d’impaccio ripetevo yes yes. Però, che i miei yes fossero appropriati al contesto, o che esprimessero una vaga comprensione del problema, fatto sta che il signor Xy mi pareva soddisfatto, tanto che si rivolse alla moglie con un largo sorriso e con ampi cenni di approvazione del suo capoccione quasi calvo. Avrei voluto essere più collaborativo e, mentre Xy parlava, mi venivo preparando tutta una serie di domande, ma il problema era quello di esprimerle in inglese. Anche se le domande, o meglio le risposte alle domande, avrebbero potuto chiarirmi l’oggetto della conversazione e magari darmi la possibilità di aiutare la coppia dei nostri affidatari a risolvere il loro problema, che aveva certo a che fare con il post office e con il fermo posta, restava tuttavia il fatto che il mio inglese era pressoché inesistente. A un certo punto, come a un segnale convenuto, i signori Xy si alzarono. Ci scambiammo un paio di calorose strette di mano, io sorridevo appagato, loro esibivano un aplomb invidiabile. Rimasi nell’ostello per un mese ancora, ma li vidi solo un paio di volte, da lontano. Fecero finta di non conoscermi.