Una festa per Joyce

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Trieste ricorda James Joyce

Oltre venti appuntamenti in quattro giorni

di Riccardo Cepach

 

Potrebbe essere Edoardo Camurri che, il giorno successivo a quello della sua straordinaria, fluviale, “addittiva” conferenza su Finnegans Wake come psichedelica via di conoscenza, in una mattinata di laborioso risveglio, appunto, mi rivela l’ineguagliabile neologismo che Joyce ha creato per definire i postumi di una serata troppo alcolicamente allegra: shamepain, unione di dolore (pain) e vergogna (shame) in un frizzante accordo. Oppure potrebbero essere Rob McGlade e Gordon Lee, i due musicisti irlandesi noti come “Fathers of Western Thought” che, concluso il loro straordinario concerto The Endlessnessnessness, ironico e potente, mi confessano – loro, reduci dall’aver suonato negli ultimi tre Bloomsday dublinesi – di essersi divertiti tantissimo al festival triestino e di avervi trovato un’atmosfera unica e inimitabile. O magari è quella di un paio di giorni prima, quel momento, a tarda notte, quando con Matteo Capobianco e Maria Sanchez abbiamo finito di montare le ultime strisce di carta e di posizionare le ultime luci e abbiamo potuto ammirare per la prima volta il suggestivo labirinto di carta della mostra SIRENS – Out of the blueSday (che rimane aperta alla Sala Veruda fino al 16 luglio: se non l’avete ancora vista non perdetela).

Insomma, non so quale potrebbe essere l’immagine o la scena capace di riassumere, per me, il senso complessivo di un’esperienza come quella dell’ultimo Bloomsday, il festival organizzato dal Museo Joyce che in questa edizione – come del resto in quella precedente – si è sviluppato lungo quattro intense giornate (dal 16 al 19 giugno scorsi), inanellando una serie di oltre venti appuntamenti: spettacoli dal vivo scritti e realizzati appositamente, concerti all’aperto, presentazioni e proiezioni, mostre e installazioni, prestigiosi ospiti italiani e stranieri. So, ricordo, la fatica, e la gioia, condivise in particolare con i colleghi della Biblioteca Civica, di realizzare noi, piccolissima struttura museale, povera di mezzi e di risorse, un evento tanto grande (almeno a misura nostra) e riuscito. So l’emozione di vedere l’evento crescere di ora in ora sui social network, superare i 20.000 contatti giornalieri, attirare apprezzamenti, condivisioni, entusiasmo. E so quella degli applausi lunghi, lunghissimi al termine degli eventi più coinvolgenti, i sorrisi soddisfatti, i complimenti.

Anche al netto della soddisfazione che – non cercherò di negarlo – grondiamo, questo piccolo festival dedicato al grande esule irlandese sta diventando un affare serio. Nato otto anni fa dall’intuizione dell’Associazione DD-Project – che proprio quest’anno ha ripreso a celebrarlo con un evento che unisce l’arte di Joyce al dadaismo attraverso le visioni dell’artista siciliano Guglielmo Manenti (la mostra è ancora visitabile al Bar-libreria Knulp, a due passi dal Museo Joyce) – il Bloomsday triestino è giunto alla settima edizione sviluppando armoniosamente alcune caratteristiche che lo rendono unico: la vocazione alla divulgazione più ampia (che non significa mai banalizzazione o riduzione della complessità: chi ha seguito quest’anno le conferenze del già ricordato Edoardo Camurri, o quella di apertura, l’appassionante viaggio di Piero Boitani lungo tre millenni di Ulisse, lo sa); l’attenzione per l’arte figurativa e per i giovani talenti (rappresentati in questa occasione dal giovane ma affermato Capobianco “Ufocinque”, ma anche dai ragazzi che hanno preso parte al progetto Siiiiirene Comics sviluppato assieme ai colleghi di “Artefatto” e con l’aiuto dell’Accademia del fumetto); senza dimenticare una mai negata vocazione festaiola.

Ma è tipica e distintiva del Bloomsday triestino anche la volontà di esplorare, di volta in volta, un singolo episodio dell’Ulisse: l’edizione 2016, ad esempio, è stata incentrata sull’undicesimo capitolo del libro, Sirene, sicché una gran parte degli eventi è stata progettata e realizzata in modo da rappresentarne un’illustrazione o un’espansione, un approfondimento o un’interpretazione.

Sulle Sirene di Ulisse hanno lavorato gli storici partner del Bloomsday Art&Zan con la compagnia dell’Armonia, mettendolo in scena in due appuntamenti organizzati sulla pubblica via, ma anche, appunto, gli artisti figurativi. A Sirene hanno dedicato i loro sforzi i già citati “Fathers of Western Thought” che per l’appuntamento triestino hanno prodotto dieci canzoni nuove di zecca, che vanno ad aggiungersi al loro impressionante repertorio joyciano, ma anche la citata Maria Sanchez Puyade, fondatrice dell’associazione “Liberarti” e autrice di una coinvolgente installazione intitolata Mermaid’s Song, dove accettare un bicchiere di vino può portarti a incontrare le voci delle sirene che, come quelle dell’Omaggio a Joyce di Luciano Berio, intrecciano le loro voci ma, a differenza di quelle, che parlavano italiano, inglese e francese, qui parlano italiano, sloveno, greco e spagnolo (anche questa installazione si può visitare presso Liberarti, in piazza Barbacan, fino all’8 luglio almeno). Senza dimenticare le sirene più joyciane di tutte, miss Kennedy e miss Douce, le cameriere dell’Ormond Bar di Dublino, che affiorano anche nell’intenso quadro di De’ tuoni, spettacolo scritto e interpretato da Diana Höbel, ispirato ai ricordi di uno degli allievi triestini di Joyce, Dario De Tuoni, appunto, e alla terribile fobia dei tuoni e dei temporali di cui lo scrittore irlandese sofferse per tutta la vita. E senza tralasciare che anche la rappresentazione del gruppo “Stolen Words” guidata da Pino Roveredo, di grande impatto, ha tratto spunto per le sue libere improvvisazioni dalla medesima situazione.

Aggiungete che buona parte di questi eventi si è concentrato in un unico luogo che abbiamo chiamato Bloomsday Village, trasformando per il periodo del festival l’antica piazzetta Barbacan, nel cuore di Cittavecchia, in una miniatura della Dublino del 1904, con le medesime insegne di pub e altri esercizi che vengono ricordati nel romanzo. Un villaggio sempre affollatissimo, vivo e vivace come mai prima.

Aggiungete gli altri appuntamenti fissi del Bloomsday, già tradizionali, come il concerto di ottima musica folk irlandese dei “Wooden Legs”, o il sempre affollatissimo tour a piedi guidato da Renzo Crivelli e la sua sempre seguitissima conferenza della domenica mattina, dedicata in questo caso alla fondamentale nozione joyciana di epifania. Aggiungete lo spettacolo inedito scritto ancora da Crivelli che ha fatto incontrare James Joyce e il giovane Egon Schiele, e le numerose presentazioni: i due video – quello spagnolo di Ana Martinez e quello greco di Vouvoula Skoura – e il volume in inglese, di recente pubblicazione, che Stanley Price ha dedicato all’amicizia fra Joyce e Svevo.

Di questa città che ha visto nascere la letteratura modernista e che, tuttora, è la città più “letteraria” d’Italia, in cui vi sono, certo, piccoli appuntamenti di antico, nobile lignaggio, ma non si è ancora mai consolidata attenzione intorno a un significativo, condiviso evento letterario capace di attrarre pubblico anche da fuori (come già succede nel nostro caso), sarò ora interessante verificare la risposta. In due direzioni almeno. Quelle delle istituzioni, che sono chiamate a rinnovare e intensificare il loro impegno (compresa naturalmente quella regionale che in questa edizione ci è stata vicina con un significativo contributo), ma anche quella degli altri operatori culturali e commerciali. Se vogliamo che questo festival, collocato fra l’altro in un periodo così favorevole per l’avvio della stagione turistica estiva (questa edizione ha sancito ufficialmente l’avvio degli appuntamenti di “Triestestate”) decolli davvero, bisogna che la città se ne impadronisca, lo faccia suo e lo declini a suo modo, mentre il Museo Joyce continua a fare la sua parte. La festa laica del Bloomsday deve essere ovunque, come quella di un santo patrono bevitore.

Alcuni timidi segnali già si sono visti quest’anno; la ricordata iniziativa di DD-Project, un “aperitivo joyciano” alla vigilia del 16 giugno, un piccolo scambio di materiali artistici fra Trieste e Dublino. Possiamo fare di più, divertendoci e imparando, facendo crescere la cultura letteraria di questo luogo straordinario, festeggiando Joyce, naturalmente, ma celebrando insieme tutta la letteratura, il nostro petrolio. Lo slogan del festival, non dimentichiamo, è #vienicomesei.

 

Didascalie immagini:

 

Un’immagine del “Bloomsday Village” di piazza Barbacan;