Una scrittrice di nome Bruno

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La vicenda biografica e letteraria di una scrittrice italiana della Dalmazia

di Walter Chiereghin

 

Era, fortunatamente, un’altra epoca, rispetto al nostro presente. Un’epoca in cui una donna, per essere presa sul serio e non venire giudicata con sospetto immediatamente, fin dalla lettura del nome dell’autore sulla copertina di un libro, dove un nome femminile avrebbe con ogni probabilità indotto un prevenuto possibile lettore a considerare un prodotto di seconda scelta il volume che soprapensiero aveva preso dal banco di una libreria. Fu così che, in più di un caso, alcune scrittrici si diedero un nom de plume maschile, per gabbare almeno agli inizi della loro carriera qualche possibile lettore obnubilato dal pregiudizio che oggi definiremmo maschilista. Il caso probabilmente più famoso fu quello di Aurore Dupin, che pubblicando nel 1832 il suo romanzo Indiana, si firmò per la prima volta George Sand, pseudonimo col quale è ancora oggi universalmente conosciuta.

Qualche anno più tardi, anche una scrittrice italiana volle presentarsi al pubblico dietro lo schermo di un nome maschile, Bruno, usando come cognome un’italianizzazione del suo cognome anagrafico, di chiara ascendenza slava, e fu così che nacque, alle lettere italiane, Bruno Sperani. Alla bambina cui molti anni prima, il 24 luglio 1839, fu imposto un nome complicato, che peraltro non adoperò mai, almeno nella vita privata: Vincenza Pleti Rosić Pare Sperać. La madre, Elena de Alessandri, italiana, di famiglia aristocratica di Umago d’Istria, le impose – probabilmente in omaggio al massimo poeta della nostra storia letteraria – il soprannome di Beatrice, e Bice fu per tutti gli intimi, in tutta la sua lunga e complessa esistenza. Il luogo della nascita fu Salona, in Dalmazia, a un tiro di schioppo da Spalato, località di importanti ritrovamenti archeologici cui contribuì, proprio negli anni della prima infanzia di Bice, l’ecclesiastico e archeologo Francesco Carrara (Spalato, 1812 – Venezia, 1854). I primi anni trascorsi in Dalmazia furono poi raccontati dalla stessa Bice in un librino, Ricordi della mia infanzia in Dalmazia, pubblicato a Milano da Vallardi nel 1915, oggi praticamente introvabile, in cui narra di sé, della sua famiglia e soprattutto dei luoghi dove trascorse l’infanzia. Direttamente da esso, apprendiamo di un rapporto di grande intensità affettiva tra la bambina e il padre, Marino Pare Sperać, dalmata di lingua croata e di modesta estrazione sociale, avversato dalla famiglia della moglie per entrambe queste sue caratteristiche. Sarà la stessa Bice in un profilo autobiografico del novembre 1886, comparso non firmato in Cronaca rossa e redatto in terza persona, a descrivere in questi termini il precario equilibrio della sua situazione familiare: «nata da padre slavo di origine plebea, da madre latina di origine aristocratica, ha subito e subisce con un’intensità spesso dolorosa le attenzioni e le repulsioni delle due razze che s’incrociano in lei».

Fu, la sua, un’infanzia breve, duramente provata dalla morte di entrambi i genitori. Per prima se ne andò la madre, nel 1843, seguita cinque anni più tardi dal marito. La bambina dovette quindi lasciare la piccola patria dalmata per trascorrere l’adolescenza presso la famiglia materna, in Istria. L’ambiente familiare che la ricevette, dominato dalla figura autoritaria della nonna materna, Ottavia, pare essere stato sostanzialmente anaffettivo e ostile nei confronti della memoria di Marino Sperać. Negli anni della formazione, Bice manifestò vivaci interessi letterari, sia nei confronti degli autori italiani – tra i quali un posto di prima grandezza fu da lei riservato alla poesia di Leopardi – quanto dei maggiori di lingua tedesca, che presumibilmente era in grado di leggere in originale, considerata l’attività di traduttrice per le edizioni Treves che la occuperà negli anni milanesi della maturità. Conseguì a sedici anni il diploma magistrale, che le tornò utile più avanti, quando intese acquisire a Trieste una sua indipendenza economica.

Appena raggiunta l’età di diciott’anni venne forzata dalla famiglia ad accasarsi, contro la sua volontà, prendendo per marito un tale conte Giuseppe Vatta di Pirano, col quale avrà tre figli: Domenico (Dino) nel 1858, Maria nel 1860 ed Elena, nel 1862. Alla giovane madre doveva sembrare opprimente l’asfittico ambiente di una cittadina di provincia quale Pirano, a fianco di un marito assolutamente distante da quanto la fervida fantasia della moglie avrebbe desiderato per sé e per la sua vita. E difatti, nel 1864, Bice abbandona la famiglia e ripara a Trieste, terza città dell’Impero austro-ungarico, città allora in tumultuosa crescita economica e demografica, che doveva apparire come una metropoli, se osservata e immaginata dalle rive di una piccola pittoresca cittadina costiera dell’Istria. A Trieste trovò lavoro come insegnante e qualche tempo dopo intrecciò con tale Giuseppe Levi una relazione sentimentale destinata a durare parecchi anni, ambientata dapprima nel capoluogo giuliano e successivamente a Bologna, dove nacque nel 1865 la prima figlia della coppia, Ginevra Giuseppina, destinata a diventare a sua volta scrittrice e seguita in pochi anni da tre sorelline, Noemi, Gilda e Clotilde. Stabilitisi poi a Firenze, dove Bice iniziò con una collaborazione al quotidiano La Nazione l’attività di giornalista, i due accarezzarono l’idea di un trasferimento a Milano, avendo affidato le tre figlie più piccole alla famiglia triestina di Levi a Trieste, mentre la primogenita studiava in un collegio nei pressi del capoluogo toscano, ma l’improvviso decesso di Levi nel 1875 sospese il progettato trasferimento che tuttavia, qualche mese più tardi, Bice decise di affrontare da sola. A Milano, per conseguire e mantenere la necessaria indipendenza economica, iniziò a redigere dapprima soltanto articoli di cronaca, quindi, dedicandosi alla narrativa, novelle e romanzi d’appendice, all’epoca richiestissimi dai giornali, lavorando per diverse testate, approdando anche al Corriere della Sera, dove venne introdotta da un’altra giornalista e scrittrice di successo, Anna Zuccari Radius, meglio conosciuta con lo pseudonimo di Neera.

Tale solidarietà femminile si concreterà anche più tardi, quando un’altra affermata scrittrice, sulle colonne del Corriere, parlerà di tre sue colleghe – oltre alla Sperani, Sofia Albini e Matilde Serao – in termini di appassionata valutazione e con malcelato orgoglio di genere: «[…] Ebbene: gridino pure all’irriverenza, ma io oso dire che queste mie brave compagne, delle quali vado superba, hanno scritto tre libri che non farebbero alcun torto a quei nomi simpatici ed illustri se fossero firmati da Luigi Capuana, da Edmondo De Amicis, da Rocco De Zorbi; e quando dico non farebbero torto, intendo dire, con modestia femminile di linguaggio, farebbero onore. Bruno Sperani – la signora Bruno Sperani, – tratta un genere molto trattato e molto felicemente dal Capuana. Ma lo fa originalmente, senza essere un’imitatrice. Le avventure amorose sono un pozzo inesauribile al quale tutti possono attingere senza che alcuno abbia diritto di reclamare la privativa. Ed ella ha attinto con discernimento e con sentimento d’arte. Nei suoi bozzetti c’è un andamento drammatico interessante, c’è sempre una sorpresa per la fine, non un’artifiziosa sorpresa immaginata per l’effetto letterario, ma che deriva naturalmente dai fatti, dalle passioni, dai caratteri, svolti nelle pagine precedenti. Vi domina lo scetticismo sdegnoso, una tinta d’amarezza scoraggiante: e questa impronta la si trova in tutti i lavori della stessa autrice; e non accade mai, come accade al Capuana, d’essere in alcune pagine d’un idealismo vaporoso, ed in altre di un verismo vero, ma pescato nel peggio, di creare donne diafane e nebulose come quelle del Paradiso di Dante, e di comprometterle in avventure non solo terrene, ma terra, terra […]».

Negli anni milanesi iniziano ad uscire in volume i romanzi e i racconti pubblicati sulla stampa periodica, a cominciare da Cesare (1879), seguito da due raccolte di novelle, e poi da un altro romanzo, Nell’ingranaggio apparso a puntate su La Nazione e uscito in volume per i tipi di Sonzogno nel 1885; in tale sua opera, come ogni altra attenta tanto alla psicologia dei personaggi quanto al contesto sociale in cui essi si muovono, per la prima volta compare esplicitamente la «questione sociale più gradita alle donne: la liberazione della donna» (p. 30).

Quel 1885 segna anche l’inizio della fase più feconda della produzione letteraria di Sperani, che si protrarrà fino alla fine dell’Ottocento, per continuare, più rallentata, anche nel secolo nuovo, ma segna anche una decisa svolta nella sua vicenda biografica, grazie all’incontro con Vespasiano Bignami, detto il Vespa, illustratore, caricaturista e pittore, docente all’Accademia di Brera, gravitante nell’ambito della scapigliatura milanese, che si accompagnerà a Bice fino alla scomparsa della donna, con la quale si era alfine sposato nel 1914, diversi anni dopo che la morte di Giuseppe Vatta, il primo marito, la aveva resa libera di affrontare un nuovo patto matrimoniale.

Il lungo profilo biografico si è reso qui necessario per la quasi impenetrabile cortina di oblio che è seguita alla comparsa della scrittrice, nel 1923, cui soltanto di recente si tenta, da più parti, di porre rimedio. Da una ricognizione anche parziale e lacunosa delle opere narrative firmate da Sperani emerge il quadro di una narratrice di talento, per di più ispirata, nel suo procedere verista, da un duplice interesse, da un lato attento alle connotazioni psicologiche dei personaggi rappresentati, che conferisce plausibilità al loro agire nel contesto dell’opera, dall’altro sempre sollecito nel cogliere le caratteristiche dei conflitti, latenti o meno, dell’ambiente sociale nel quale i personaggi stessi si muovono, secondo una visione avanzata per l’epoca, sia per quanto attiene al ruolo della donna all’interno della famiglia e della società, sia per quanto la nascente la nascente rivendicazione di un ruolo per la classe operaia poneva all’attenzione, ancora molto distratta, della borghesia, nell’Italia post-risorgimentale.

La duplicità di tale impegno creativo della Sperani si manifesta nei temi e nelle trame di molta parte della sua opera, trovando in romanzi quali La fabbrica, Nell’ingranaggio, Tre donne, Numeri e sogni la trasfigurazione letteraria di una sua vicinanza ideale al movimento socialista che prendeva forma di partito in quegli anni, cui non doveva risultare estraneo il rapporto della scrittrice con Filippo Turati, col quale era in corrispondenza. Questo non le impedì di abbandonare il rigido neutralismo dei socialisti italiani al profilarsi del primo conflitto mondiale, che la vide militare invece nelle file degli interventisti, sospintavi probabilmente anche dalle sue origini nell’altra sponda dell’Adriatico.

Un’ancor flebile ripresa d’interesse della critica e dell’editoria per una scrittrice di rilevante interesse storico e letterario è indice tuttavia del riconoscimento della sua non comune qualità di narratrice che produsse, nella seconda metà milanese della sua esistenza, una mole alluvionale di racconti e romanzi che con acutezza e anche con una certa preveggenza, seppero tratteggiare non soltanto condizioni esistenziali in qualche modo emblematiche, ma soprattutto l’ampio e originale affresco dell’Italia che si avviava a scavalcare il limite del suo secolo per affrontare quello, spinosamente problematico, del nostro Novecento.