Una voce dall’Istria

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Nella variante linguistica di Valle: Sandro Cergna

di Maurizio Casagrande

 

Le liriche nel vallese di Valle d’Istria di Sandro Cergna, recentemente ospitate sulle pagine della rivista Filigrane (Chenochesì, II, 1 – 2021, pp. 185-194), sembrano erompere da oscure scaturigini simili a certe foibe del Carso nella misura in cui si mostrano attraversate da un’inconciliabile dialettica degli opposti in ambito etico: il dono gratuito di sé e la negazione dell’altro (con il bene che gli è connaturato) che alimenta l’essenza stessa del male.

Coerentemente a tale approccio problematico e straniante all’esistenza – in quel nido di vipere a cui spesso si riduce la nostra vita – l’autore adotta come animali metaforici e totemici alcuni rettili (ora la lucertola, ora il ramarro, ora la biscia, fino alla vipera), creature ctonie, striscianti e a sangue freddo che amano occultarsi negli anfratti per tendere insidie alle prede, ma bisognose anche dei raggi del sole per sopravvivere, vale a dire bene e male, tenebra e luce strettamente intrecciate, incrocio che si rivela anche di natura linguistica grazie al recupero di voci dialettali di area veneta desuete o in uso solo nell’istroromanzo di Valle: Chenochesì (Nonècosì), rasaborgo (ramarro), carsedana (vipera), buasera (biscia), e altre ancora.

Ambivalente fin dal titolo, nel senso che lo si può interpretare sia col valore di un assertivo “più no che sì”, come pure in quello di un non meno radicale “che nullità che siete!”, il vallese riportato alla vita da Cergna testimonia a questo modo sia della propria intatta vitalità, quanto della possibilità di una duplice chiave di lettura, spirituale e carnale ad un tempo, per una lingua che viene a convertirsi in una sorta di frusta sferzante (“el scuriadìn”, nella variante vallese) senza risparmio nemmeno nei confronti di se stessa e di chi se ne serve.

Anche più trasparente in questi testi risulta il rapporto mai del tutto risolto con la propria esistenza, come con la figura paterna, che si tratti del padre biologico, come di ogni altro soggetto cui sarebbero dovuti fiducia, devozione e rispetto: «No iera meio che naseva na carsedana / al me posto? ti ghi frachi l cao / e più no la voldo // E vuldisi ndretno duto l mal del mondo, / qualcosa che creso zò n tel negro, n fondo / e apian te sbrega, apian / como l rasaborgo fa cola / buasera» (Non era meglio nascesse una vipera / al mio posto? le schiacci la testa / e non sente più // E sentirsi dentro tutto il male del mondo, / qualcosa che cresce giù nel buio, in fondo / e lentamente ti squarcia, lentamente / come fa il ramarro con la / biscia, Filigrane, II, 1 – 2021, pp. 185-186). Con un’evidenza ancora maggiore quanto a spiritualità del dettato: «E a pindulando / saremo fuie quasi verde, ancora / sul albero, / ntela piova // Saremo isertule / che scampa / nte l’umbria dei sasi, / fra i busi dela masera, / e saremo / solo quanto l brisiner / dura / de maitina» (E penzolando / saremo foglie quasi verdi, ancora / sull’albero, / nella pioggia // Saremo lucertole / che corrono / all’ombra dei sassi, / tra i pertugi del muricciolo, e saremo / solo quanto permane / la rugiada // al mattino, Io ti darò le mie mani, pp. 188-189).

Un’altra prova incontrovertibile di questa ininterrotta oscillazione, non solo semantica, tra opposti estremi è l’esilarante ritratto di Iginio, bestemmiatore incallito e insieme assiduo cantore del Gloria ogni domenica in chiesa, oltre a mostrarsi fedelissimo e intrinsecamente contraddittorio cultore dell’onanismo e della mona: «L Iginio, iera musica scoltalu / co l porconeva per Vale / ma le dumeneghe n cesa, / el canteva l Gloria n latin / e solo, dedrio del morto, al preto / el ghi rispondeva: / “Liberame Domine de morte aeterna…”» (L’Iginio, era musica ascoltarlo / quando bestemmiava per Valle / ma le domeniche in chiesa, / cantava il Gloria in latino / e solo, dietro al feretro, al prete / rispondeva: / ”Liberame Domine de morte aeterna…””); e ancora: «Ma l Iginio no, no l se vanteva  / e per lui l dizeva solo / che oto volte al dì anca / de zoveno / el si lu menava, / e che la roba più bela del mondo / iera la mona…» (Ma l’Iginio no, non si vantava / e per sé diceva soltanto / che otto volte al giorno anche / da giovane / si masturbava, / e che la cosa più bella del mondo / era la “mona”…, L Iginio, pp. 188-189). Ed è appunto all’eros, ad un eros finalmente liberato da Thanatos, come da condizionamenti, divieti e castighi, che Cergna mostra di guardare come unica possibilità per riconciliarsi con la vita  e con se stesso, grazie al medium imprescindibile della poesia e del proprio dialetto: «Ancoi zè duto l dì che serchi le to tete. / Zbrisa a poco a poco i dedi sula carno calda, / ti nseri i oci e naltro segno zà ti naso sula boca. / Cristina, quanta carno signemo! E quanto più, quanto de più ancora podemo! / Profuma de fragola e fen  el to scajo e se ntorlegheia / la lengua fra i to freschi pei (verdi spini) e l profumo de ciel / dei to cavei» (Oggi è tutto il giorno che cerco il tuo seno. / Scivolano a poco a poco le dita sulla carne calda, / chiudi gli occhi e un altro segno già ti appare sulla bocca. / Cristina, quanta carne siamo! E quanto più, quanto più ancora possiamo! / Profuma di fragola e fieno la tua ascella e si attorciglia / la lingua tra i tuoi freschi peli (verdi spine) e il profumo di cielo / dei tuoi capelli, Cristina, pp.191-192).

 

Riquadro:

Sandro Cergna (Pola, 1970) ha scritto, sporadicamente, poesia in dialetto istrioto di Valle d’Istria. Ha partecipato, nel 2000 e nel 2004, al Concorso d’arte e cultura Istria Nobilissima con due raccolte di poesie, conseguendo il secondo e il primo premio per la poesia in dialetto. Dal 2007 è docente di letteratura italiana alla Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Pola. Insegna Dimensioni della letteratura italiana presso il Corso di Laurea Magistrale in Lingua e letteratura italiana, nell’ambito del quale tocca argomenti attinenti alla storia e alla tradizione poetica dell’istrioto. Ha pubblicato Valle d’Istria: note storico-antropologiche (Se la va, Pola 2006), e Vocabolario del dialetto di Valle d’Istria (Centro Ricerche Storiche, Rovigno 2015).

 

 

 

 

Fig 1:

Sandro Cergna

 

Fig. 2:

 

FILIGRANE

Culture letterarie

Anno II, n. 1, 2021