Universi fantastici di Patrizia Bigarella

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di Walter Chiereghin

 

Un appartamento pieno di fascino, di oggetti, di piante, di dipinti. Spazi generosi, che al minimo spostamento dello sguardo propongono nuovi scenari, il più delle volte frutto dell’estro creativo della padrona di casa. Il corrispettivo animato di tale profusione di cose è, soprattutto ma non solo, una giovane bassottina di nome Nutella, che prendo in braccio, incurante dei valori della mia oscillante glicemia. Patrizia Bigarella non scodinzola e, ovviamente, non lecca compulsivamente l’ospite, ma la sua accoglienza è altrettanto festosa, anche se in forme più composte e controllate. Dopo il caffè bevuto assieme in cucina, dove la grande cappa in muratura è affrescata dalla padrona di casa, tanto all’esterno che all’interno, ci accomodiamo nel suo studio, adiacente a quello del marito, Paolo, anatomo-patologo, come testimonia un imponente microscopio sulla scrivania. Rimpiango un po’ il fatto che l’intervista sia scritta, anziché ripresa da una telecamera, per quanto mi vedo attorno del suo lavoro, in un disordine solo apparente: disegni, acrilici su tela, figure ritagliate, collage, libri d’artista, incisioni, illustrazioni scientifiche di parti anatomiche eseguite a china. Cominciamo da queste ultime.

 

Devo dirti che sono attratto da questi tuoi lavori, eseguiti nella tua attività di disegnatrice e illustratrice presso l’Università di Trieste: queste tavole anatomiche così nitide, almeno all’apparenza così tanto lontane dalle opere artistiche, dove ti muovi con una libertà di espressione che non sembra conoscere limiti. Come ti riesce di destreggiarti tra due campi così differenti?

Prima di tutto, ti dirò che non vedo una differenza così drastica tra i due ambiti, anche se è evidente che quando, nel mio lavoro all’università, devo realizzare una tavola illustrativa di un particolare anatomico dell’occhio umano non posso certo concedermi grandi digressioni dettate dalla fantasia. Però osserva queste tavole: chi direbbe che sono illustrazioni di embriologia? non sembrano anche a te delle opere astratte? E poi gli strumenti di base sono analoghi, partono entrambi da segni, da colori, sono sempre inchiostri di china di varie tonalità, pastelli… anche se in ufficio devo predisporre una rappresentazione che consenta di illustrare nel modo più comprensibile e dettagliato, e comunque sempre rigoroso, le fasi di un intervento chirurgico, per esempio. Comunque, certo, questo è “soltanto” il mio lavoro del mattino.

Quindi tu ti diverti un mondo, anche quando sei sul lavoro?

Sì: ho la fortuna di fare un lavoro che mi piace, ma io non mi sarei potuta mai rassegnare a qualcosa di diverso, di meno coinvolgente. Queste cose che vedi le faccio al mattino, poi, nelle ore che ho a mia disposizione nel pomeriggio, mi dedico all’attività artistica. Però, ripeto, non trovo che ci sia una cesura netta e assoluta tra queste due attività. Certo, l’uso del computer ha modificato molta parte del lavoro di documentazione grafica, che tuttavia resta sempre legato, in parte, anche a strumenti come carta, matita, china, pastelli.

Come hai acquisito le competenze per la tua attività lavorativa all’università?

In larga parte derivavano da quanto avevo appreso negli anni della mia formazione: a Padova mi ero diplomata all’Istituto d’arte, dove avevo scelto di specializzarmi in decorazione pittorica. Dopo la maturità, mi sono sposata e, con mio marito, ci siamo trasferiti qui, perché lui aveva trovato lavoro come medico. Pensavamo di rimanere a Trieste per sei mesi, e invece siamo ancora qui. Ho seguito un corso universitario, conseguendo una laurea breve in Oftalmologia. Abitavamo in una stanza in subaffitto, pochi soldi, per cui la frequenza dei miei corsi presso la Clinica oculistica mi dava tra l’altro la possibilità di stare in un ambiente confortevole, di avere accesso alla mensa a mezzogiorno, e mangiare al Circolo ufficiali solo alla sera. Ero soddisfatta, devo dire anche che ero un’allieva piuttosto brillante. Quando mi è stato chiesto dal direttore se sapessi disegnare, ho negato: l’idea di doverlo fare perché obbligata mi ripugnava, insofferente come sono riguardo all’autorità, però alla fine ho ceduto. Poi, come immagino succeda ai più, sono diventata brava sul campo, imparando mentre lavoravo, anche se talvolta cadevo preda all’ansia da prestazione.

Quando hai cominciato a capire che il disegno sarebbe diventato così importante nella tua vita?

Credo di averlo sempre saputo, fin dai miei primi anni. Mio padre è stato un disegnatore eccezionale: aveva un’impresa edile e disegnava le piante degli immobili dei quali si occupava e io passavo ore a guardarlo lavorare, e poi mi portava a casa dei grandi rotoli di carta sui quali ci divertivamo a disegnare. Tutto quanto è successo dopo, credo, ebbe origine da lì, sia nel mio lavoro da dipendente sia in quello artistico in senso più stretto.

Ecco, lasciamo stare il lavoro per la Clinica universitaria. Parallelamente alla tua preparazione accademica e poi ai primi passi nella professione, ti sei indirizzata a conseguire nuovi risultati che completassero la tua formazione all’Istituto d’arte?

Ho partecipato per quattro anni, dal 1984, ai corsi tenuti da Nino Perizi alla “Scuola Libera di Figura” del Museo Revoltella e a diversi stage diretti dallo stesso Perizi. Poi c’è stata una lunga interruzione, di quindici anni, e in seguito, a partire dal 2007, ho frequentato la “Libera Accademia di Belle Arti – Scuola del Vedere” e quindi i corsi di grafica tenuti da Franco Vecchiet presso la “Scuola Libera dell’Acquaforte Carlo Sbisà”.

Vogliamo almeno accennare alle ragioni di quella lunga interruzione?

Come sai, mia figlia era affetta da una gravissima patologia. Sono stata per molti mesi all’ospedale infantile, accanto a lei, vivendo anche le esperienze drammatiche, spesso tragiche, di altri bambini, anch’essi ricoverati nella stessa struttura. Ho vissuto anche la mia seconda gravidanza con la paura di perderla. A casa, ci eravamo organizzarti per tenere la bambina al riparo da possibili infezioni, oltre che a garantirle la nostra costante presenza. è stato un periodo di grande paura, ma anche di grande amore. Una “prima linea” che dava un significato reale alle nostre vite. Poi ad un certo punto ho ricominciato il lavoro, dove mi recavo la sera, fino alle dieci… dandomi il cambio con mio marito, chiaro che non mi rimanesse molto tempo per studiare. Anche riprendere è stata dura, ma ho voluto farlo e dal 2008 in poi non mi sono più fermata, con mostre collettive, personali, con varie iniziative…

Benché così drammatica, quest’interruzione della tua attività artistica non è stata comunque assoluta nemmeno in quel lungo, troppo lungo periodo, vero?

No, certo: il disegno ha aiutato molto me, la nostra bambina e il nostro bambino più piccolo perché portava un diversivo importante nelle nostre giornate di isolamento e attraverso i disegni e i colori ho potuto coinvolgerli in un mondo straordinario che in qualche modo li faceva uscire di là, lasciandosi alle spalle quelle stanze per avventurarsi in un mondo immaginario che io avevo creato per loro e assieme a loro.

Ricominciare è stato difficile?

Sicuramente non è stato facile, perché ho inteso ricominciare praticamente da zero. Mi era sembrato più onesto lavorare sul figurativo per lunghi anni e ricominciare da dove avevo iniziato con Perizi, dagli studi di figura. Dopo di che, mi sono amareggiata per alcune modalità presenti nell’ambiente dell’arte, sempre così ipercritico, così aggressivo e se vogliamo, così cieco. In realtà la mia avversione per l’uomo era totale, per i guasti che ha prodotto e continua a produrre a se stesso, alla natura e nella società, per cui mi sono isolata, rivolgendo la mia attenzione al mondo degli animali, che amo molto, come del resto pure le piante. Mi sono di conseguenza allontanata dalla figura umana per approdare in un’area dove esercitavo con una certa libertà la mia immaginazione.

Hai organizzato il tuo lavoro all’interno di serie tematiche, vero?

Sì, ho creato delle serie: fin dalla prima mia personale del 2008, che ho voluto intitolare “Anatomia dell’inquietudine”, nella quale ho inteso rappresentare visivamente un autentico grido di dolore, che recava tutta la mia ribellione per tutti i bambini che avevo visto morire. è stata, quella mostra, un po’un punto di svolta, che mi ha consentito di riprendere il filo con una maggiore serenità. A quella si sono succedute tante cose, tra cui importante certo l’incontro con la grafica e soprattutto con Vecchiet, con cui continuo a lavorare con reciproca soddisfazione: alcune cose le hai viste anche tu, come la mostra “Traslazioni” al Museo Ugo Carà, a Muggia…

Certo, ne ho scritto anche, sul Ponte rosso (sul n. 18 dell’ottobre 2016, n.d.r.)

Infatti: era una cosa sul riciclo, ma prima di quella, ho agito spesso, è vero, per cicli, cosa che mi consente di approfondire un determinato argomento mediante una pluralità di opere. Pensa al ciclo che ho chiamato “La buona novella”, come ha intitolato un suo album di successo Fabrizio De Andrè: il lavoro scaturisce da un mio particolare interesse del tutto umano nei confronti di una donna cui viene assegnato un compito e un destino che lei non ha scelto. La donna, chiaramente, era Maria che, seguendo i vangeli apocrifi, ho cercato di raccontare dalla nascita alla maternità, attraverso cento opere realizzate con incisioni, dipinti e sculture. Nella sua impossibilità di esercitare il libero arbitrio, nel mio interesse per questo aspetto tutto umano di quella vicenda esistenziale, e avendo visto l’accumunarsi di altre vicende contemporanee in cui è coinvolta proprio la donna, si capisce come non sia estranea la mia insofferenza nei confronti del potere, a maggior ragione quando viene esercitata una costrizione.

Anche “La buona novella” rappresenta un po’ uno snodo nel tuo percorso artistico?

Direi di sì. Come ti ho detto, dopo quell’esperienza ho deciso che bastava “parlare” degli uomini, ho abbandonato la figura umana, per dedicarmi semmai all’immaginazione, che spesso, nel mio caso di animalista convinta, assume le sembianze, semplificate e simboliche di animali, che sono presenti in buona parte di quanto ho prodotto successivamente. Si è trattato di un passaggio graduale: dapprima ho frammentato la figura umana scombinando l’assetto anatomico naturale, poi ho rilevato le parti non significative e le ho elaborate; sono approdata lì, dove gli uomini hanno iniziato a rappresentare le loro figurazioni dipinte e graffiate nelle grotte preistoriche e ho finito col dialogare attraverso i bestiari medievali.

Non temi di essere compresa di meno, percorrendo le vie di una figurazione meno collegata al realismo, o addirittura dedicandoti all’astrazione?

Vedi, prima di tutto non esiste un limite netto tra realismo e astrazione: un’infinitesima particella di reale appare più astratta di quanto non si possa immaginare e questo me lo dice con certezza il mio lavoro di illustratrice anatomica, e poi, considero che esistono richiami figurativi in quasi ogni cosa che ho fatto finora. L’astrazione vera subentra in casi particolari, com’è stato per esempio per il mio lavoro di interpretazione delle poesie di Grisancich raccolte nel volume Les italiennes, ma lì mi ero posta il compito di rappresentare un sentimento, il più delle volte qualcosa di espresso appena, in un verso o due, e allora…non c’è niente di più astratto di un sentimento ed io mi sono allineata. Quanto al resto della tua domanda, ti dirò, con tutto il rispetto che si deve al pubblico, che non credo che un artista debba arrestarsi quando teme che ciò che produce non sia comprensibile appieno da chi osserva la sua opera. Se il fruitore non ne intuisce il significato, non è cosa che possa limitare l’attività e la libertà di chi esegue l’opera. Io sono una creatura libera, e rivendico costantemente la possibilità di fare ciò che ritengo giusto, o almeno rispondente al mio modo di vedere e di rappresentare ciò che penso.

Quindi tu assegni a chi fa arte, in questo caso, una sorta di ruolo di apripista?

Di apripista, esatto.

Ciò però può condurre a un percorso cieco…

Succede, alcune volte. Tentativi che non portano da nessuna parte, e allora è necessario trovare l’umiltà e l’energia per cercarne un altro, di percorso. E sono a volte cammino di mesi, se non di anni.

Direi che la tua attività dal 2008 a oggi, e sono più di dieci anni, è stata intensissima e connotata da una ricerca appassionata attraverso generi e tecniche diverse. Hai lavorato e continui a lavorare con una progressione impressionante. Nell’ambiente nel quale ti muovi ci sono state persone che ritieni ti abbiano aiutato, che siano degli autentici amici. Intendo artisti, ma anche critici, galleristi…

Naturalmente ci sono diverse persone e sicuramente ne dimenticherò qualcuna, che mi sono state o mi sono vicine. Per esempio Nino Perizi, non solo come insegnante, ma con un’assiduità realmente amichevole mi è stato vicino anche nelle fasi più difficili della mia storia. C’è poi, in particolare, un amico, del quale non casualmente abbiamo già parlato, che è Franco Vecchiet, il mio maestro, col quale lavoro sempre molto volentieri a quattro mani, anche perché lui lavora con gioia, e tendenzialmente anch’io sono gioiosa, non voglio crogiolarmi dentro il dolore e la sofferenza. Con lui parliamo anche molto d’arte, e sono conversazioni che giudico molto importanti. Un’altra persona importante per me è Federica Luser, che mi è stata molto vicina e che ha dato prova di avere fiducia in me, e Raffaella Busdon che è stata determinante per molti aspetti fondamentali della mia vita. Poi c’è Antonio Sofianopulo, un caro amico e l’Art Projects Association con Qing Yue e Franco Rosso, poi ancora Gianni Spizzo e da non dimenticare Claudio, Claudio Grisancich!

 

Con un certo disappunto mio e di Nutella, è arrivato il momento di andarmene, ma dispongo adesso di un bottino di informazioni cospicuo, che certo eccede quanto mi servirà per l’intervista. Mi mostra ancora dei piccoli tesori dei suoi più recenti lavori, libri d’arte, piccole sculture in cartapesta policroma fissate a bassorilievo su degli antichi mattoni. Chiacchieriamo ancora un po’ di cose che il tacere è bello, come scrisse padre Dante e alla fine mi risolvo, un po’ a malincuore, a lasciare quella stanza delle meraviglie. Ma con la convinzione che non dobbiamo proprio perderci di vista.