VEDUTISMO ROMANTICO A MIRAMARE

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di Walter Chiereghin

 

Anche chi visiti saltuariamente o addirittura per la prima volta il castello di Miramare rimane probabilmente colpito dalla visione, tra i dipinti ivi conservati, di una suggestiva veduta notturna della Riva degli Schiavoni dove, di fronte alla Piazzetta San Marco, si celebra una festa al chiaro di luna: si tratta dei festeggiamenti del 1857 per l’arrivo nella città lagunare di Massimiliano d’Asburgo, arciduca d’Austria e della giovane sposa del principe ereditario, Carlotta del Belgio. Il dipinto, facente parte delle collezioni del Museo Storico del castello di Miramare, fu commissionato dallo sfortunato futuro imperatore del Messico a un affermato pittore bellunese, Ippolito Caffi. L’artista interpretò la festosa accoglienza agli sposi declinandola secondo i canoni di un vedutismo fortemente connotato in senso romantico, con tanto di luna che fa capolino tra le nubi, in un tripudio di effetti chiaroscurali che disegnano le architetture con un sapiente effetto luministico, che se possibile si esalta ancora di più con le luminarie festose che traspaiono dal felze di una gondola in primo piano e dalle luci di altre più lontane imbarcazioni. Il Caffi, che poteva vantare una solida preparazione accademica acquisita proprio a Venezia, aveva certo presente un vasto e illustre precedente storico a partire da uno stuolo di vedutisti che, segnatamente nel secolo XVIII, avevano perfezionato, sulle orme di Luigi Carlevarijs e poi del Canaletto e ancora di Francesco Guardi, un genere destinato a una straordinaria fortuna, irradiandosi dalla città lagunare – allora negli ultimi decenni della sua straordinaria storia di potenza marittima, in tutta l’Europa, grazie agli acquisti di nobili e alto borghesi che da ogni dove calavano in Italia per celebrare la liturgia del grand tour. Un sottogenere delle vedute veneziane prodotte in quel secolo può considerarsi la rappresentazione degli Ingressi, le cerimonie di accoglienza a diplomatici accreditati a Palazzo Ducale o a principi e regnanti ospitati nella città dei Dogi; un capolavoro di tale sottogenere firmato dal Canaletto è sicuramente L’ingresso solenne del conte de Gergy a Palazzo Ducale, dipinto nel 1727 e ora conservato all’Ermitage di San Pietroburgo, dove il festoso avvenimento è descritto dal Canal dal medesimo punto di osservazione che verrà utilizzato dal Caffi centotrent’anni più tardi, ma mentre nell’ariosa opera del Canaletto la scena è fissata sulla tela nello splendore della sua visione meridiana, in una luce che consente di osservare ogni minuto dettaglio di architetture e imbarcazioni, di costumi e atteggiamenti degli astanti, nell’opera del bellunese tutto è immerso nel buio della notte, dove la scarsa illuminazione fornita dal chiaro di luna e da lanterne e fuochi esaspera la resa drammatica della scena rappresentata.

Il dipinto conservato a Miramare rappresenta l’unico possibile punto di contatto tra le biografie del principe austriaco, erede al trono di un impero che l’altro, il pittore che fu anche attivo sostenitore della causa unitaria del nostro Risorgimento, avrebbe in ogni modo osteggiato, fino a morire nell’infausta giornata di Lissa, a bordo del “Re d’Italia, affondato dalle artiglierie navali di Tegetthoff.

Nato a Belluno nel 1809, Ippolito Caffi manifestò una precoce vocazione per le arti figurative, debolmente contrastate dalla famiglia che difatti gli consentì di andare a bottega da due pittori locali, Antonio Federici e Antonio Tessari, per poi trasferirsi a Padova, presso il cugino Pietro Paoletti, pittore, che aveva rapporti di collaborazione con un altro artista, il canoviano Giovanni Demin. Nel 1827, per un biennio, frequentò i corsi dell’Accademia di Venezia, mantenendo anche in seguito un contatto con l’ambiente accademico, ma aspirando a raggiungere a Roma il Paoletti, che vi si era trasferito da Padova. La cosa gli riuscì nel 1832, e a Roma si può dire conclusa la sua formazione pittorica e fu lì che, dipingendo dal vero, comprese che la sua via era quella del vedutista, genere cui rimase fedele per il resto dei suoi anni. Alcuni dei suoi dipinti di maggior successo diedero luogo a numerose repliche: ad esempio del suo Carnevale di Roma, la cui prima redazione è datata 1837, sono note almeno quarantadue repliche. Fino al 1843, mantenendo il domicilio romano, si spostò in varie località italiane, tra le quali Milano, Trieste e Padova. Nel ’43, dopo un soggiorno napoletano, partì per l’Egitto, seguendo un itinerario che lo portò dapprima ad Atene, quindi in Turchia, in Palestina e infine nella terra dei faraoni, dove si spinse fino a Luxor e quindi ancora più a sud, nel deserto della Nubia, nell’attuale Sudan.

Rientrato in Italia, riprese la sua attività di vedutista, anche dando fondo al bagaglio di suggestioni che la visione di paesaggi e costumi africani e mediorientali gli aveva consentito di cumulare.

Nel 1848 partì volontario e combatté gli austriaci nella pianura friulana, fu fatto prigioniero ma riuscì a fuggire e riparare a Venezia, dove si esercitò in opere di carattere documentario per descrivere eventi della resistenza all’esercito austriaco. A Venezia rimase fino alla capitolazione della repubblica, in seguito alla quale si trasferì dapprima a Genova, quindi a Torino, viaggiando anche per l’Europa, con soste in Svizzera, in Gran Bretagna, a Parigi e in Spagna. Nel 1855 ritornò a Roma che per lui doveva costituire un inesauribile fonte d’ispirazione per i suoi monumentali reperti archeologici e per gli scorci pittoreschi della città rinascimentale e moderna. Nel 1858, venne processato a Venezia, per la sua presunta partecipazione disordini nel ’49; ma, risultando assolto, si stabilì ancora una volta nella città lagunare. Nel luglio ’60 fu arrestato e rinchiuso sempre per ragioni politiche e, liberato dopo tre mesi, ripartì subito per Milano ed accorse a Napoli e in Campania dove era in corso l’avanzata garibaldina; documentata in alcuni suoi dipinti.. Ritornato a Venezia nel 1861 riprese a lavorare alacremente alle sue vedute. Dichiaratasi nel luglio 1866 la guerra all’Austria, lasciò Venezia e si diresse prima a Firenze, poi a Taranto, dove s’imbarcò sulla fregata “Re d’Italia” per il suo ultimo viaggio.

Ventitre anni dopo la sua morte, a seguito della scomparsa della vedova, Virginia Missana, si dette esecuzione di un suo lascito testamentario della signora che offrì alla città di Venezia un corpus imponente di dipinti (oltre 150, attualmente ospitati alla Galleria nazionale d’arte moderna di Ca’ Pesaro) e circa 1.350 disegni, ora nelle collezioni del Gabinetto stampe e disegni del Museo Correr.

Da Ca’ Pesaro – uno dei gioielli espositivi facenti capo alla Fondazione Musei Civici di Venezia, una quarantina di dipinti del Caffi sono approdati a Miramare, alcuni dei quali anche restaurati per l’occasione. Si tratta di una mostra, curata da Annalisa Scarpa, che propone un ricco campionario di vedute, tale da offrire al visitatore un’idea precisa della qualità del lavoro del pittore veneto e della tematica a lui più congeniale.

Le visioni incantate di Caffi costituiscono un’autentica e luminosa testimonianza della sua esperienza umana e artistica, interpretando ciascuna una tappa del suo percorso, da Venezia a Roma, da Napoli ad Atene, da Costantinopoli a Gerusalemme, all’Egitto dei faraoni e del deserto. Ciascuna di queste tappe ha fornito materiale all’estro pittorico dell’autore, che non si è limitato a confinare la sua indubitabile perizia tecnica all’interno di un intento meramente descrittivo e calligrafico, ricercando invece in molte occasioni di aggiungere al percepito, in aderenza alla sua visione romantica, un illusionistico surplus di ricercati effetti luminosi o d’altro genere destinati ad amplificare il contenuto narrativo della veduta e suggerendo alla fantasia dell’osservatore ulteriori spunti interpretativi.

Il gusto per i viaggi è certo un’altra cosa che avvicina Massimiliano a Caffi, due personalità per ogni altro aspetto e per ogni altro dettaglio biografico lontanissime tra loro che ritrovano ora, nella mostra di Miramare, pacificati nel silenzio che da quasi un secolo e mezzo li accomuna, un inconsueto, postumo, ulteriore punto di contatto.

 

Ippolito Caffi, Egitto – Istmo di Suez, 1844, olio su tela, cm 55 x 85, Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro di Venezia