Verga tra teatro e narrazione

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Sulla nuova edizione critica del romanzo Dal tuo al mio

di Fulvio Senardi

 

Si è aggiunta nel 2021 alle opere già pubblicate dell’edizione critica di Giovanni Verga, promossa, con il sostegno ministeriale, dalla Fondazione Verga di Catania, quella del romanzo Dal tuo al mio (Fondazione Verga – Interlinea) che segue di qualche anno, per la cura della medesimo studiosa, l’edizione della pièce teatrale dallo stesso titolo che, come si sa, è l’opera-fonte del romanzo. Libro pregevole anche per l’approfondita introduzione della curatrice, Rosy Cupo, ricercatrice attiva presso il Dipartimento di studi umanistici dell’Università di Ferrara.

Non era infatti impresa da poco affrontare questo romanzo di Verga, e non solo sul piano filologico, ma anche su quello psicologico ed estetico, cercando di cogliere da un lato le ragioni, dall’altro le modalità con cui Verga conduce  un’operazione non usuale (per lui anzi assolutamente inedita, vista la preferenza, semmai, per percorsi opposti, vedi Cavalleria rusticana, La lupa, In portineria), ovvero quella di trasformare un’opera teatrale in romanzo, esplicitando in “ampia didascalia” (sono le parole stesse dello scrittore prese da una lettera al suo editore, Emilio Treves, del giugno 1905) «il rilievo e il colore che dovrebbe dargli l’attore alla rappresentazione». Una metamorfosi che nasce anche dalla volontà di trovare riscatto per una pièce che, nella sua prima milanese del 1903, aveva clamorosamente fiascheggiato (per dire con un termine caro a Tommaseo), anche per un eccesso di coerenza estetica nel segno della tecnica dell’impersonalità (dove scopre le carte uno scrittore teso a “cercare”, così in altra sede Pietro Trifone, «soluzioni di scrittura non convenzionali, nel contesto di un ambizioso tentativo di ridefinire le tradizionali strategie comunicative del discorso teatrale») e che successivamente Verga volle in parte riplasmare per ripresentarla al pubblico a Roma in quel 1904 che vide il trionfo sulle scene italiane della Figlia di Iorio di D’Annunzio.

Altra cosa, ovviamente, ricavarne un romanzo, come se la rivincita andasse cercata su un più elevato piano artistico, nella convinzione, assolutamente condivisa in quell’ epoca (per averne conferma basta leggere il libro-inchiesta di Ugo Ojetti, Alla scoperta dei letterati, 1895, con le sue ventisei interviste, da Carducci a D’Annunzio, ossia alla crème del mondo letterario italiano), che, rispetto alla narrativa, «il teatro è d’opera d’arte inferiore» (così Verga in una lettera al critico Domenico Oliva del 1904). Certo, gioca anche l’illusione di un possibile guadagno, e non tanto forse per l’edizione italiana, quanto invece per la possibilità di cederlo a qualche editore francese, magari, in un primo tempo, in forma di feuilleton; una via che in fine lo scrittore si trovò sbarrata, nonostante l’insistenza presso il proprio traduttore e mediatore francese, Edouard Rod. Aggiungeremo che un’esplicita finalità “venale” non creava ormai nessuno scandalo, da quando almeno Zola, riflettendo sulla letteratura e il denaro, aveva riconosciuto nel profitto, in un’epoca democratica di letterati di professione, un fattore positivamente dinamico della produzione libraria.

Peraltro il successo italiano del romanzo, salutato dall’editore con una esplicita metafora (che Dal tuo al mio stava “passando il Rubicone” delle mille copie vendute, altri tempi come si vede…), pur rinfrancando lo scrittore, pesantemente indebitato con la casa editrice, non attenua il suo senso di insoddisfazione per un’opera che gli sembra riuscita male e sulla quale continua invece a leggere, con sua stessa sorpresa (come confessa all’amata Dina), recensioni positive.

La seconda parte dell’introduzione ha un carattere più tecnico e intende valutare la coerenza dell’autore nell’opera di trasformazione, a partire dai “tre nuclei concettuali” sui quali insiste lo stesso Verga: «la necessità di prevenire le accuse di antisocialismo, dovute all’aver portato in scena il ‘voltafaccia’ di un uomo che ‘quando è giunto alla figlia del barone e alla zolfatara, afferra il fucile’ contro i suoi compagni; il desiderio di riuscire ad aggirare, per quanto possibile, i ‘difetti’ dell’opera teatrale, conferendo una ‘nuova veste’ al dramma senza snaturarne però l’essenza; infine la volontà di rappresentare la ‘vita qual è’, con la ‘rapidità’ e la ‘concisione’ che la contraddistinguono» (XXIX). Operazione condotta a buon fine con sensibilità e competenza da Rosy Cupo che, portando separatamente all’analisi il dialogo e le didascalie, e attenta anche al «recupero di varianti precedentemente scartate», mette in rilievo alcune tendenze di fondo dell’operazione letteraria di Verga. In primo luogo l’aver puntato verso un’espressività colloquiale che riduce il tasso di letterarietà del dramma, ed elaborando poi «nuove soluzioni testuali che con sapiente uso della mimesi verbale, riescono a integrare la gestualità e la prossemica degli attori» (XXXV). In conclusione, però, di fronte all’evidenza che «i risultati sono disomogenei e a volte addirittura contraddittori», Cupo rileva che «nel tentativo di salvaguardare la parte più riuscita del proprio lavoro, cioè il dialogo, l’autore conseguì in definitiva un risultato ibrido, che le sue stesse parole definiscono appieno: ‘né dramma, né romanzo’» (XLV).

Nulla diremo dei “testimoni” che vengono presi in considerazione (manoscritti ed edizioni a stampa passati al vaglio per confronti testuali e valutazione di varianti, il terreno solido su cui costruire ipotesi sulla strategia correttiva), segnalati e discussi in un capitolo a sé: aspetto assolutamente fondamentale dell’approccio filologico, i nodi del filo d’Arianna che ogni studioso diligente deve cercare di sciogliere per giungere alla matassa, ma sicuramente di interesse relativo per noi, comuni lettori.

Un piccolo spazio va invece dedicato alla valutazione complessiva della pièce e del romanzo sul piano etico ed ideologico. Lo statuto squisitamente filologico delle riflessioni di Cupo consente la pretermissione del problema, a proposito del quale però, corsivamente, la studiosa esprime l’opinione che il tema degli affetti familiari in Dal tuo al mio sia stato troppo sacrificato da una critica eccessivamente incline a tranciare giudizi di ordine politico-ideologico (vedi XV). D’altra parte, difficile “sterilizzare” il contenuto pessimistico sul piano morale e conservatore su quello sociale insito nel dramma e nel romanzo, con la loro amara conclusione, in cui si descrive l’inaspettato cambio di bandiera di Luciano, un campione degli oppressi che, per difendere la “roba”, si fa paladino del privilegio. Che poi Verga rivendichi, nella prefazione del 1906, di «non aver voluto fare opera polemica, ma opera d’arte», e di aver «fatto la mia parte in prò degli umili e dei diseredati […] senza bisogno di predicar l’odio e di negare la patria in nome dell’umanità», nulla cambia della sostanza del problema. Semmai conferma, per parafrasi, quella definizione di sé che lo scrittore aveva dato a Colajanni in una lettera del 1891: «tenuto rivoluzionario in arte, sono inesorabilmente codino in politica».

 

Giovanni Verga

Dal tuo al mio

Romanzo

Edizione critica

a cura di Rosy Cupo

Fondazione Verga

Interlinea, Novara 2021

  1. 139, euro 30,00