Vita complessa di Katherine Mansfield

| | |

La biografia disordinata e ruvida, una vita breve e una scrittura che è considerata un apice della letteratura del Novecento

di Gabriella Ziani

 

«Il mio spirito è quasi morto. […] Posso camminare? Solo strisciare. Posso far qualcosa con le mani o il corpo? Assolutamente niente. Sono un’invalida totale senza speranza. Che cos’è la mia vita? è l’esistenza di un parassita. E ormai sono passati cinque anni…». Nel suo diario così scriveva Katherine Mansfield il 14 ottobre 1922. Meno di tre mesi dopo, il 9 gennaio 1923, sarebbe morta, a 34 anni, per una emorragia provocata dalla tubercolosi che dal 1918 aveva trasformato la sua vita già complicata in un vagabondaggio solitario tra Francia, Italia e Svizzera alla ricerca di salute, fino all’ultima stazione, la comune del teosofo russo-armeno George Gurdjieff, a Fontainebleau, dove al freddo, con scarso cibo e fra mucche e capre e «gente orrida» sperò, se non poteva dominare il corpo, di affinare almeno la propria anima ardente, e anche furibonda, passionale e «isterica», protesa a succhiare della vita e della natura ogni minima espressione e apparenza per trascinarle senza mediazioni nella scrittura, unica missione esistenziale, la sua «religione», il cui frutto sono racconti di lucente particolarità, un apice della letteratura novecentesca (Preludio, Intermezzo, Istantanee, A garden party, Bliss, La giornata di Mr. Peacock, Alla Baia, La mosca, Miss Brill…).

Solo pochi anni prima quella giovane donna invalida era stata nei salotti di Londra una farfalla ammaliatrice. Inconfondibile frangetta nera, occhi mobili e indagatori, voce bassa, incarnato di porcellana, abiti eccentrici, una sfilza di nom de plume (anche lo stesso Mansfield), e alle spalle esperienze intime da poter raccontare solo a pochi e sottovoce. Aveva avuto amori con due donne, con tre uomini, uno l’aveva sposato ma il matrimonio durò un solo giorno, subì un aborto, forse due, per mantenersi aveva fatto la chansonnier, l’attricetta, frequentato ambienti senza porpora, e la sua inseparabile amica, ancella, badante e infermiera Ida Baker detta Leslie Moore – che infine lei chiamava “moglie” –, era un’operaia. Si erano conosciute nel 1903 ai tempi di scuola. KM la odiava quando era presente con la sua soffocante, servile attenzione, e la adorava con gelosia quando era assente: reciproca dipendenza.

Nata il 14 ottobre 1888 a Wellington in Nuova Zelanda da una ricca famiglia (il padre Sir Harold Beauchamp è il potente presidente della Bank of New Zeeland), Katherine ha tre sorelle e un fratello, e una cugina destinata altrettanto a grande fama letteraria e personale, Elizabeth von Arnim. Come d’uso per le famiglie coloniali di rango, nel 1902 viene mandata a studiare a Londra, al Queen’s college, rientra a casa nel 1906 ma l’ambiente le va stretto, e con una modesta rendita paterna torna  a Londra. Succede tutto quel che di sregolato e nomade può succedere, finché nel 1911 a Garsington nella residenza dell’eccentrica mecenate Ottoline Morell (grande amica del gruppo di Bloomsbury dove svettano il critico e scrittore Lytton Strachey e l’aristocratica Virginia Woolf) non incontra questi grandi intellettuali del momento. Strachey s’incuriosisce, e vuole che l’eterea Virginia la conosca. Gliela descrive: «Ha per faccia una brutta maschera impassibile, intagliata nel legno, capelli castani e occhi marroni molto distanti l’uno dall’altro; e dietro la maschera un intelletto acuto e fantasioso in una maniera un po’ volgare».

Le due si studiano, si soppesano, e si annusano, la Woolf scriverà nel diario che KM puzza come uno zibetto, intravede in lei ombre di bassifondi che non ha mai conosciuto e per i quali prova insieme attrazione (letteraria) e repulsione (autentica). Ma ne intuisce l’ardore artistico, vede in quella ragazza delicata, evasiva e misteriosa la penna con cui dovrà misurarsi, e anche Katherine “sente” che la nuova amica è fatta di sostanza letteraria, ma non esiterà a recensire negativamente il suo secondo libro, Notte e giorno, giudicandolo vecchio nella concezione e nello stile, come se l’autrice non si fosse accorta che dopo la prima guerra mondiale tutto era cambiato, anche la percezione della realtà (lei, obiettivamente, era già un passo più avanti). «Mi è sembrato di cogliere della cattiveria» commentò Virginia nel diario. Lei peraltro già l’aveva offesa violando le confidenze che Katherine le aveva donato, ironizzando in pubblico su se stessa come «casta» e sull’altra come «libertina». Ne nacque un incidente diplomatico che forse raggelò il rapporto sul nascere. Comunque in seguitò la Woolf andò personalmente a chiederle un racconto da stampare come primo titolo della nuova casa editrice fondata col marito Leonard, la Hogarth Press, e così nel 1918 uscirà Preludio, inizialmente intitolato L’aloe, oggi considerato un manifesto del modernismo, e con questo incitamento la Mansfield chiuse un duro periodo di lutto per la morte sui campi di battaglia dell’amato fratello.

Ma quando nel 1922 uscirà da Constable Garden Party, con enorme successo, immediate ristampe, traduzioni in America e in Europa, recensioni entusiastiche a mazzi, definizioni di “genio”, Virginia confesserà lividamente al diario i suoi veri sentimenti: «Che importa se KM spopola sui giornali e fa salire le vendite alle stelle? Ho trovato un ottimo sistema per metterla al suo posto: più la elogiano, più io mi convinco che non vale nulla». In quel momento la sua rivale era a Parigi, a sperimentare pesanti radiazioni ai polmoni in una ormai disperata ricerca di cure per la tbc, ma dopo un breve illusorio beneficio, una volta trasferitasi in Svizzera col marito pasticcione, scriverà alla fedele Ida: «Sono più malata che mai… un’invalida totale». Anche Virginia, si sa, era fragile, la sua malattia mentale la debilitava per lunghi periodi, si rifletteva sul fisico, costringendola a spossanti settimane di letto e di febbri. Ma per la infelice Mansfield non ebbe mai un pensiero di compassione. Le aveva scritto: «Dannazione, Katherine, perché non posso essere l’unica donna che sa scrivere?». E quando seppe della sua morte restò virata su se stessa: «Quando mi sono messa a scrivere mi è sembrato che non avesse alcun senso. Katherine non lo leggerà. Katherine non è più la mia rivale».

Ora per il centenario della morte è uscito un libro che si intitola proprio al rapporto fra le due, Nessuna come lei. Katherine Mansfield e Virginia Woolf, storia di un’amicizia, ma si tratta di un interessante escamotage – peraltro di altissima qualità scientifica e narrativa – per ripercorrere le due vite in parallelo sulla base di una ricchissima documentazione, e a ogni traccia di incontro (il materiale biografico per entrambe è di dimensioni esorbitanti) si sente uno spiffero gelido. Per KM Virginia è una snob. E lo era. Per Virginia KM è «strana». E lo era, o almeno così aveva scelto di apparire, consapevole del proprio lato teatrante, «un po’ falso» per sua stessa ammissione. Passionale nel cuore, di vetro in pubblico.

In casa di Ottoline non era stato questo tuttavia l’incontro più importante. Katherine conosce lì il critico e scrittore John Middleton Murry con cui andrà a convivere per sei anni, prima del matrimonio celebrato in fretta nel 1918 quando la malattia si è già manifestata. Da quel momento vivranno separati, lei in giro per cure, lui a Londra a scrivere e a dirigere riviste, a guadagnare soldi. Lei sempre più infiammata di un amore che la distanza accende di miracolosi miraggi, lui più sfuggente, infantile, preso dagli affari. Alla sua morte però – contravvenendo al lascito testamentario che ordinava al marito di distruggere ogni carta – pubblicò tutta l’enorme mole di lettere quotidianamente ricevute, oltre agli appunti privati e ai diari: il mito tragico di Katherine Mansfield ha origine in queste migliaia di pagine, e la sua grandezza esce dai confini dei racconti, espandendosi per gli immensi scenari di una vita soltanto desiderata e messa freneticamente sulla carta. Sognava una casa, un giardino, i bambini, le cose semplici, gli odori e i sapori di una quotidianità mai più conosciuta dai tempi vaporosi e caldi dell’infanzia. Scriveva: «Ma la vita, la vita calda, ardente, viva – metterci radici – imparare, desiderare, sapere, sentire, agire. Ecco quello che voglio. Nulla di meno».

Anche in questo esuberante sogno irrompe di lato Virginia. Ma non è una consolazione, è invidia che torna al mittente. Perché Virginia ha il protettivo Leonard accanto a sé (e non un Murry sempre lontano, distratto, e pure cattivo scrittore secondo la moglie), ha una casa in campagna, ha il giardino, ha tempo e luogo per i suoi romanzi. Katherine invece sta esiliata all’estero, in pensioni e stanze d’affitto, in Cornovaglia, a Ospedaletti nei pressi di Sanremo, a Mentone sulla riviera francese, poi in Svizzera, fra medici e medicine, tosse, febbre e debolezza, letto e sedia a sdraio, paura di morire e il mondo da guardare alla finestra. Nei momenti più bui si costringe a tavolino, a scrivere come se quella fosse la redenzione, e non farlo una colpa. Ha detto Pietro Citati nella sua fascinosa biografia Vita breve di Katherine Mansfield (Rizzoli 1980): «Far fluire l’inchiostro sui fogli di carta era, per lei, come far fluire il sangue nelle proprie vene». E i racconti sgorgano come illuminazioni di cristallo, perfetti nella sintesi, nei dialoghi, nelle caratterizzazioni, nella vivacità. Dei fotogrammi in presa diretta senza un prima e un dopo, senza tempo, a volte senza un vero finale. Ancora Citati: «La porta d’entrata di queste piccole costruzioni era sovente dimessa e casuale: un particolare minimo o futile al quale nessun altro scrittore avrebbe dato rilievo. […] Risveglia in noi un’impressione di labilità e vaghezza; mentre, in effetti, questi inizi sono fatali come pochi».

L’uso «oculatissimo della reticenza» (Citati), e insieme la violenza delle percezioni, l’acutezza dei sensi, la ricettività immediata dei dettagli furono a posteriori le doti che Virginia ammirò, recensendo il diario della collega scomparsa. La sua mente era sulla stessa lunghezza d’onda, ma restava colpita dal modo «sano, caustico, austero» con cui KM aveva esercitato la propria missione letteraria, e ancora molti anni dopo la vedeva in sogno, era un conto rimasto in sospeso.

Il 9 gennaio 1923 l’ormai sfiorita farfalla ricevette a Fontainebleau la visita così attesa dell’amato Bogey (il soprannome del marito), e nell’eccitazione di fargli credere di star bene salì in fretta le scale che portavano al piano superiore. In cima ebbe un terribile accesso di tosse e, appena in camera, una emorragia. «Sto morendo, credo» sospirò. Era vero. Fu subito richiamata dall’Inghilterra la fida ancella Baker. Quando la vide così piccola e pallida nella bara fece quello che aveva fatto per tanti anni, la coprì con uno scialle perché non prendesse freddo.

 

Sara De Simone

Nessuna come lei

Katherine Mansfield

e Virginia Woolf

storia di un’amicizia

Neri Pozza, Vicenza 2023

  1. 428, euro 22,00