VOLTI E FIGURE DI FABIO RINALDI

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rinaldiSi pensa sempre che ciò che viene strappato al tempo si trovi davanti alla macchina fotografica. Ma non è del tutto vero. Fotografare è un atto bidirezionale: in avanti e all’indietro. Certo, si procede anche “all’indietro”.

[…] Una fotografia è sempre un’immagine duplice: mostra il suo oggetto e – più o meno visibile – “dietro”, il “controscatto”: l’immagine di colui che fotografa al momento della ripresa.

Wim Wenders*

*(da Claudio Marra, Le idee della fotografiaLa riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Bruno Mondadori, Pavia 2001, pp. 316-317)

 

La personale fotografica “Forty-one shades of portrait” di Fabio Rinaldi, a cura di Adriano Perini, dal 23 ottobre al 15 novembre al museo d’Arte Moderna Ugo Carà di Muggia (Trieste).

Un viaggio per immagini. Freud chiama Das Unheimliche quel senso di straniamento e di familiarità da cui siamo attraversati in certe situazioni, anche estetiche: come se quello spaesamento che proviamo davanti a un’ immagine ci rimandasse sempre a sentimenti o emozioni confuse, simmetricamente opposte, a qualcosa di nascosto e di profondo. Di inconscio. Del resto parlare di fotografia porta con sé la semantica della soggettività declinata in tutte le sue possibilità. La più evidente, quella più sovversiva e inquietante, è quella della alterità. Sono condannato a guardarmi attraverso lo sguardo arbitrario di chi mi fotografa. Non solo, ma anche a tentare di riconoscermi, di trovare un “io” in quel “me”, una sorta di confidenza con quella immagine che parla di me, dice di me, ma che mi trova spaesato, distante, per via dell’intenzionalità di chi mi ha costruito in immagine. Come se io non fossi io, non mi assomigliassi davvero, e quella grammatica di senso non fosse mia fino in fondo.

Il ritratto fotografico parla una lingua che il soggetto stenta a comprendere, nella parzialità di un gesto, un’espressione, un tempo che diventa immortale: io che mi guardo cerco la verità di chi sono. È un’operazione, quella della fotografia, che ha a che fare con qualcosa che porta all’anima, come ben intuivano gli Indiani d’America che la temevano, pena la perdita della stessa.

Fabio Rinaldi la conosce e la usa bene, quest’arte – no, non di sola tecnica, trattasi – e crea una dialettica viva tra la sua soggettività di fotografo e l’oggettività di chi ritrae.

È Arnold Newman – fotografo statunitense maestro del ritratto ambientale -, da cui prende ispirazione. “Il ritratto non ha confini: dalla figura intera all’essere umano immerso nel paesaggio, dal ritratto parziale di certe parti anatomiche ad uno ben preciso. Se c’è riconoscimento si può parlare compiutamente di ritratto, sostiene Rinaldi. Non occorre vedere tutto il volto di Marilyn Monroe per riconoscere le sue labbra, come non serve vedere il volto del primo astronauta sulla luna per capire che si tratta di Neil Armstrong. Sono esempi estremi, ovvio, trattasi ormai di icone, ma è evidente che più elementi utili mettiamo in campo per il riconoscimento della persona, più facile sarà collocarlo socialmente. Lo strumento musicale al musicista, la penna allo scrittore. Ecco che costruiamo attorno a lui un ambiente che ci permette di aiutare la lettura dell’ immagine. Newman è perfetto in questa contestualizzazione”.

Forty-one shades of portrait è una galleria fisiognomica che raccoglie ed espande il profondo legame tra l’immagine e il nostro mondo interiore, tra il dicibile e l’indicibile, il visibile e il non visibile. La struttura della mostra si articola in una prima parte attraversata da una serie di ritratti di persone significative nel panorama culturale del Friuli Venezia Giulia, colti quasi in una prossimità domestica, famigliare. Nel loro habitat naturale e necessario. La seconda sezione di questo viaggio per immagini, in forma triadica, si articola ne L’ altra faccia del vero, Fugit inexorabile tempus e Sembianze, l’ultimo.

“Quanto la nostra conoscenza è in grado di confermare la giusta realtà delle cose. Quanto la logica influisce sull’apparenza delle cose”, dice Rinaldi ed è il plateau teoretico che attraversa l’artista. Restiamo sospesi tra visi pietrificati dall’ argilla e maschere, tramite verso il tragico, ma anche con la nostra essenza di umanità, vista l’etimologia stessa della parola persona: per attraverso sonar risuonare. Così era chiamata in antichità la maschera indossata dagli attori, che oltre a coprire il volto fungeva anche da amplificatore per la voce.

In Fugit inexorabile tempus abita l’aporia dell’immagine fotografica: “medium bizzarro, nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo”, per dirla con Roland Barthes. Ma la verità va cercata da altre parti, non in quell’ attimo fermato e mortificato, e perciò reso immortale. Altrove, nei dettagli, lì dove non è evidente.

Con Sembianze Rinaldi entra nell’ immaginario simbolico di chi ritrae, cercandone il doppio, l’archetipo. L’ animale che ci si porta dentro, a sua – e spesso anche a nostra – insaputa. Fotografia e maieutica diventano allora un passo figurato, un salto nel vuoto, alla ricerca di un alter ego nascosto, di quella crepa – tra chi siamo e chi non sappiamo di essere – dove l’obiettivo arriva prima, arriva meglio. Senza paura.